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Sebbene abbia l'aspetto fisico di un romanzo, si tratta in realtà di un racconto, a cui riconosco la qualità di esser scritto discretamente e di coinvolgere fin da subito il lettore. Fermine è una specie di versione transalpina di Baricco (ma meno piacione e vanesio del nostro, il che risulta un pregio). In questa storia s'inventa un curioso cercatore di tè, lo fa partire dalla sua Inghilterra e lo catapulta in Cina, dove questo disgraziato finisce preda della smania di trovare il tè bianco. Ci mancava solo che incontrasse una suadente danzatrice locale. Alla fine si tratta di una storia di passioni, a più livelli, gestiti dall'autore con una certa sbrigativa semplicità che, da un lato, fa scorrere la lettura a velocità supersonica ma, dall'altro, depaupera i personaggi di una opportuna caratterizzazione psicologica. Per questo motivo il lettore non empatizza con il protagonista (che ha ben poco da dirci) e non può che affrontare la storia con lo stesso animo curioso e superficiale di un bimbo a cui si racconta la fiaba prima di dormire. Non è detto che sia un limite, non necessariamente. L'oppio si insinua tra un rigo e l'altro, ma non stordisce, non ne ha la forza. Romanzo che non farà la storia: chi cerca emozioni intense ed esperienze di lettura non superficiali può passare oltre senza troppi rimorsi.
Mi è stato regalato da una mia amica e devo dire che è stato il regalo più bello che abbia mai ricevuto. Mi ha cambiato la vita.. ho incominciato a bere thè e ho incominciato ad apprezzare sempre di più gli odori e i sapori di questa bevanda spettacolare!! Do' un voto più che positivo!! Ho letto tra i commenti che non ne vale la pena spendere 13 euro per il tempo che si impiega a leggerlo.. beh, devo dire che colui che l'ha scritto non sappia cosa voglia dire leggere.. Beh, in ogni caso consiglio questo e anche gli altri tre di Maxence Fermine!! ciao, mauro.
Ma è Fermine a copiare lo stile del Barrico di Seta o viceversa? Penoso comunque, un furto buttare 13 euro per un libro che si legge nel tempo di un fumetto e non lascia nulla, meno male che ogni tanto si incappa in un Mitote. Riccardo
Recensioni
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Un inglese giovane e ostinato, la sete d'espansione commerciale dell'Europa ottocentesca, i misteri di un Oriente impenetrabile sono gli ingredienti di un romanzo ambientato in un'epoca in cui il viaggio di un mercante europeo in Cina aveva scarsissime possibilità di riuscita e l'audacia di spingersi fino alle proibite regioni interne poneva spesso fine alla sua vita. Ma il pericolo e l'ignoto, si sa, acutizzano il desiderio, e agli avventurieri non manca mai una nobile spinta alla conoscenza né l'opportunità di soddisfare con qualche favore illecito gli indispensabili complici. È quanto accade in Opium al coraggioso Charles Stowe, protagonista di una perigliosa iniziazione ai segreti della Via del tè che "partendo da Londra, faceva rotta sulle Indie e si addentrava in Asia fino a perdersi irrimediabilmente nel Celeste Impero". Imponenti navi mercantili e fragili giunche trasportano il giovane inglese attraverso Ceylon, Singapore, Hong Kong e Shanghai, fino alla remota valle sacra del tè, dove lo conduce la ricerca del rarissimo tè bianco, riservato al consumo esclusivo dell'imperatore. Qui lo attendono la prova estrema di una passione amorosa, tanto folgorante quanto preclusa, e la rivelazione della "nera tenebra dell'oppio": lo stordimento percettivo e l'esaltazione della voluttà che la droga asiatica sa garantire. Il potere seduttivo dell'irraggiungibile Loan, già sposa di un temutissimo signore del tè, e il vizio, non meno soggiogante, dell'oppio trasformano il corso del viaggio di Charles Stowe, la cui vita "fa pensare al caso come a una tela di ragno in cui il destino finisca talvolta per impigliarsi." Il senso dell'onore che aveva spinto il giovane eroe a un'avventura prossima a schiudergli le porte dell'estasi mistica si scontrerà, infatti, con un non meno radicato senso della realtà, e il fascino del mistero orientale sarà infine soffocato da qualche segreto di troppo.
Dopo Neve, Il violino nero (Bompiani 1999 e 2001, cfr. "L'indice", 2002, n. 5) e L'apicoltore (Bompiani, 2002), Maxence Fermine ha di nuovo scritto un romanzo che somiglia a una fiaba, dove i rari riferimenti alla guerra dell'oppio tra Gran Bretagna e Impero cinese non sono che il labile sfondo di una storia sospesa in una bolla, "impalpabile come una boccata d'oppio, effimera come un sorso di tè". La sua prosa scarna e allusiva, fitta di ripetizioni vagamente incantatorie, si limita a evocare i profumi, i colori e la gestualità di un Oriente conforme agli stereotipi di quella tradizione che dall'antichità all'Ottocento ha eletto un'area vastissima e multiforme a scenario "esotico" di avventure ed esperienze fuori dell'ordinario. Ma alle favole bisogna voler credere, anche quando imboccano vie note e magistralmente percorse da predecessori del calibro di Nerval o Flaubert, che qualche rimpianto lo suscitano sempre. Se avete amato le avventure giapponesi di Hervé Joncourt in Seta di Alessandro Baricco (Rizzoli, 1996, cfr. "L'Indice", 1996, n. 4), romanzo che la Francia ha osannato e che non sembra essere sfuggito all'attenta lettura dello stesso Fermine, Opium non vi deluderà.
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