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Fantastica la ricerca linguistica di termini particolari e fantasiosi, bello l'inizio con la messa in evidenza che il detto "Italiani brava gente".....in guerra insomma..lascia molto a desiderare..poi perde di interesse secondo me, comunque da leggere
Recensioni
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"Sul bianco cuore di calcare, il sangue oscurò gli ulivi, i carrubi e le cave solitarie. I pianori dell'origano e del timo si velarono di morte. L'estremo fuoco scese per il cielo o venne dritto da dietro ai muretti delle chiuse, dalle siepi folte di ginepro. Dopo un paio d'ore di massacri, le armi caddero accanto allo sterminio. Cadaveri neri giacevano, crivellati, tra gli arbusti dell'asfodelo bruciacchiato e della ferula spugnosa. Nero, l'obice sfondato. Nero, il carro capovolto. Nera, la carne straziata della morte".
È un esempio, fra i tanti possibili, dello stile di Pino Di Silvestro, già apprezzato nel romanzo d'esordio La fuga, la sosta (Rizzoli, 2002) e che ora torna in L'ora delle vipere: un lessico elegante, nel quale le screziature regionali o dialettali s'impastano con voci rare dell'italiano letterario, mai tradendo una pascoliana vocazione all'esattezza terminologica, mentre la sintassi opta per l'accumulo elencatorio o per una fluida alternanza di ipotassi e paratassi, sempre intramata di riporti citazionali. Il modello della prosa di Consolo è evidente, ma in quest'insigne incisore siracusano settantatreenne è poi tutta personale la capacità di guardare alle cose con occhio da artista, attento agli sguinci prospettici, alle sfumature luministiche o al dettaglio rivelatore: se tale qualità costituiva un valore aggiunto nel romanzo d'esordio, di cui era protagonista un Caravaggio dolente e consapevole (altro che quello inventato da Camilleri nel recente, ruffianissimo raccontino Il colore del sole!), in questa seconda prova lo sguardo d'artista emerge a tratti, poiché la scommessa dell'autore è di natura più centrifuga.
L'ora delle vipere ricostruisce il ventennio fascista rapsodicamente e con prospettiva "dal basso", puntando il compasso su una piazza di Siracusa (ribattezzata Città di Mare) e allargando il raggio all'America dell'emigrazione (in un'analessi temporale che spiega la ricchezza di un giovane Droghiere antifascista) o all'entroterra agricolo che prima offre tregua ai rovelli dell'anziano Panniere anarchico (ed è questo l'episodio più debole del romanzo, perché non mi pare riesca a rinnovare il topos idillico del "riposo del guerriero") e poi dà scampo alla famiglia del Droghiere, in fuga dalla città sbranata dai bombardamenti alleati.
La prima parte del romanzo sfrutta il coro frondista dei commercianti libertari (c'è fra loro anche un Canonico) per informarci sugli aspetti più ridicoli e più criminali del regime: dall'assassinio di Matteotti e dei Rosselli agli orrori della guerra di Spagna, passando per i deliri di Starace e la visita pomposa del dittatore, che si regala in gran segreto una sosta atletico-balneare, in un episodio esilarante che allude ad altri, più attuali, cultori del salutismoesibito con gerarchetti al seguito.
Gradualmente la focalizzazione si sposta sullo sguardo sempre più stupefatto del piccolo Nino, il figlio del Droghiere, già segretamente avviato alle magie del torchio, dunque controfigura infantile dell'autore: Nino registra negli adulti l'ansia per la guerra imminente, per il cibo che scarseggia, per i rapporti umani che s'incattiviscono e poi l'arrivo della morte a Città di Mare. Peraltro, le riflessioni amare del Droghiere sulla violenza degli Alleati che bombardano i civili non incrinano il suo antifascismo, ma accrescono il sapore doloroso della verità che riconosciamo in questo romanzo coraggioso, che ci piace anche per il suo sapore un po' "fuori stagione", ma tanto più necessario nell'epoca delle rimozioni etiche travestite da revisionismi storici.
Giuseppe Traina
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