In omaggio a Conrad l'Est si apre allo sguardo di un giovane dal mare. Il giovane Michael, undicenne, s'imbarca da Colombo, Sri Lanka, sulla Oronsay per raggiungere sua madre a Londra. Proprio così si guadagna quello sguardo sull'Est che non lo abbandonerà mai più. Il ragazzino si ritrova solo nella cabina priva di oblò; con un messaggio passato sotto la porta viene assegnato al tavolo numero 76. Il tavolo, che dà il titolo all'edizione inglese, è l'ultimo in fondo alla sala da pranzo, il più lontano dal tavolo del capitano, come a dire, di terza classe. Tuttavia i commensali si rivelano subito interessanti: un botanico, un sarto, un pianista fallito e tre ragazzini presto irretiti dal suo annuncio che il viaggio si rivelerà "educativo" se sapranno tenere occhi e orecchie ben aperti. In effetti il viaggio assumerà una sorprendente valenza pedagogica. Non sarà tanto un'iniziazione all'età adulta, all'età dell'esperienza contrapposta all'infanzia e all'innocenza. Sarà invece un percorso esistenziale che lascerà un segno indelebile, che diventerà bio-grafia. Scrittura di sé, per i propri figli, curiosi di sapere com'era andato quel fatidico viaggio. Talvolta invisibili ai più, talvolta usati come esche, i tre ragazzini, Cassius, Ramadhin e Mynah (così viene soprannominato l'io narrante), vengono istruiti sulla botanica, sul canone jazzistico, sull'ingegneria navale ora dall'uno ora dall'altro ospite. Così le semi-oscenità del pianista, il giardino tropicale, velenoso e lussureggiante di luce e colori nel buio del ventre della nave, rimarranno loro impressi nella memoria come un marchio a fuoco. Se di "rito di passaggio" si tratta, è un rito di passaggio al rovescio. Solo un lettore e critico letterario acuto come Amitav Ghosh poteva capirlo. Ghosh aveva già compreso tutto della (po)etica di Ondaatje nel suo bellissimo saggio Il dolore più grande (2001; Neri Pozza, 2005), quasi avesse già presagito la direzione che avrebbe preso anche la sua narrativa futura. A commento della poesia di Ondaatje dedicata alla parola vatura (acqua) e alla sua tata, Rosalin, Amitav Ghosh scriveva: "È un'elegia al ritorno a casa con la voce di chi è rimasto orfano della storia stessa. È un lamento funebre per la sparizione del paradiso che rendeva possibile Rosalin. (
) Classicamente, i racconti di emigrazione sono storie di arrivo non di partenza, non di dolore o rimpianto". Invece Ondaatje e i suoi personaggi si volgono indietro, continua Ghosh: "È la direzione dello sguardo che fa di questo (
) la storia di una dispersione, la storia di un'irrimediabile scissione dei legami di reciprocità". Questo sguardo all'indietro, nostalgico e doloroso, s'imprime nel romanzo come sua cifra. Con quel viaggio, qualcosa è stata sottratta alla mia vita, scrive l'autore, oggi, dal Canada: mi mancava il coro degli insetti, le grida degli uccelli in giardino, il parlare dei gechi, l'umidore tropicale
L'elenco snocciolato si scioglie in un intero capitolo sull'infanzia isolana, trascorsa con i due amici Narayan e Gunepala. Il primo cercato, poi, tuffandosi nell'immaginaria cittadina di Malgudi, tra le pagine dello scrittore anglo-indiano R. K. Narayan, i cui romanzi Michael aveva trovato sulle bancarelle di Londra. Invece, ancora sulla nave, aveva inseguito un odore pungente di bruciato sin dentro una cabina, proprio lui che si definisce bambino "shy" e "cautious" (timido e prudente): qui un uomo lascia bruciare una cima di corda. "Mi manca quell'odore", confessa, e l'uomo gli risponde: "So che mancherà anche a me. Perché vado via per sempre". Tutto ciò che accade sulla nave e tutte le tipologie di personaggi incontrati germinano in grandi narrazioni nei romanzi di Ondaatje: ladri e giocatori d'azzardo, artisti nomadi, stelle del jazz, amanti folli o violenti, persino il film di propaganda che viene mostrato mentre la nave si avvicina al golfo di Aden ha il medesimo valore simbolico che ha il film in bianco e nero nel Paziente inglese. Le pagine più belle tuttavia sono dedicate ancora una volta a un certo sguardo: visto l'annuncio su un giornale di Londra di una mostra di quadri del pittore Cassius, Michael vi si reca con la speranza di incontrare l'amico di un tempo. Vi trova le sue grandi tele, tutte dedicate al passaggio notturno lungo il Canale di Suez, a quelle luci sulfuree, fuochi, sagome di uomini e mezzi meccanici intravisti o solo indovinati nel buio e nella polvere del deserto. Dapprima i quadri gli paiono astratti, solo riflettendoci con calma Michael capisce che l'amico aveva usato esattamente la stessa prospettiva un angolo di circa 45 gradi dalla quale loro due ragazzini avevano osservato dal parapetto del ponte gli uomini che si agitavano al di sotto della grande nave in quella notte laboriosa. Cassius era ancora lì, a quel parapetto, a dire addio a ciò che non avrebbero mai più rivisto. Michael non è Michael Ondaatje, il figlio unico non corrisponde all'autore reale. Ma quel "peculiar boy" è un artista "speciale", dalla sensibilità unica. Carmen Concilio
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