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Quando muore un figlio la vita si ferma. E tutto si frantuma in quell'attimo che sembra moltiplicare all'infinito il dolore, senza vie di uscita. Federica, la figlia di Morena Fanti, viene falciata via a 24 anni, il 2 ottobre 2001, a un mese soltanto dalla laurea. È l'unica figlia di Morena e per quest'ultima, da quel giorno, non ci sarà più la vita che conduceva "prima", ma un "dopo" fatto di lacerazione e di dolore che frantuma tutta la sua esistenza, irrimediabilmente. Così nasce questo diario, questo singolare "compagno di viaggio" per un anno intero, il primo anno senza Federica, e con esso nasce anche la scrittura di Morena Fanti, che non scivola mai nel lamento, ma con tocco potente e al tempo stesso lieve, come il respiro di un vetro soffiato, sa scavare nel cuore e nella mente di un io che, da personale, si fa dolorosamente collettivo. "Orfana di mia figlia", il diario-testimonianza di Morena Fanti, non è un monologo, non uno sterile autoarrovellarsi sulle proprie disgrazie, ma al contrario assume fin dalle prime battute la dimensione del dialogo, franco e coinvolgente, con il lettore, anche lui partecipe, "abitante" di questa storia da lei raccontata, che forse ha già dovuto vivere sulla propria pelle, o che sente potrebbe vivere un giorno, giacché a nessuno è permesso in anticipo di sottoscrivere un patto di favore col fato. Una vicenda, la sua, che purtroppo è comune oggidì a tante persone, ma la sua esperienza di dolore, il suo lutto elaborato in strategie di sopravvivenza, si trasforma in letteratura nell'istante in cui assurge a valore universale, uscendo dagli angusti confini dell'autobiografismo. È un libro da leggere, da meditare, per imparare la difficile arte di sopravvivere. Si badi bene, non per vivacchiare stancamente, in balia della propria sofferenza o della rabbia sterile, ma per vivere, nonostante tutto vivere, al di sopra dei drammi e delle sofferenze della vita, con leggerezza profonda e con pensosa speranza.
Un libro doloroso ma capace di trasmettere un profondo senso di speranza: piano piano emerge la consapevolezza che tutto quello che poteva e doveva essere fatto, è stato fatto. Il passato trova il modo di chiudersi, di risolversi, di completarsi, senza lasciare nodi insoluti, domande irrisolte, richieste inattese. Così questo romanzo, che parte dall'evento più terribile che si possa immaginare - la morte di un figlio - diventa un profondo, accorato, sincero, potente, inno alla vita.
Solitamente quando si legge qualcosa di sentito ci se ne rende subito conto e credo che questo sia insieme il valore e il disvalore di questo libro. Il libro infatti, costruito come un diario, narra in modo disperato e straziante una discesa nel cuore di chi ha perso qualcuno. Nella presentazione del libro è scritto che "molti lettori si identificheranno in questa storia". Quindi, incuriosito, l'ho letto. A mio parere questo libro si riduce ad un lungo sfogo, ad un flusso di coscienza, ad un insieme di parole - troppe, forse - che stancano e annoiano. La storia è troppo fine a se stessa, la disperazione diventa rabbia verso tutto e tutti, e alla fine si perde il vero obiettivo: cosa si vuole raccontare? Il pericolo è quello di aver raccontato la propria storia solo per stare meglio ma senza farla diventare la storia di tutti. La storia, certo, ci ispira tanta pietà, ma un libro non va giudicato per la storia che ha dietro, ma per quel che comunica e questo libro resta spiacevole e alla fine non riesce nemmeno a creare empatia appiattendo ogni sentimento. Si perde il senso del tutto perché resta il racconto senza freni di qualcuno che ha affrontato una perdita. Sfortunatamente in tanti abbiamo affrontato delle perdite e perdere un figlio è quella peggiore; ma non tutti per questo motivo pubblichiamo un libro. Ciò che è pubblico dovrebbe essere di più larga veduta. Peccato quindi che tanto dolore e tanta rabbia non abbiano creato una grande opera; i presupposti c'erano, il risultato è assente.
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