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Non mi ha entusiasmato: i personaggi, soprattutto, mi paiono tirati per i capelli, più frutto d'un tentativo di farli originali ad ogni costo che realmente sentiti; paiono non avere anima.
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Questo giallo di Luciano Anselmi (1934-1996), con al centro, come di consueto, il rude commissario Boffa affiancato da un amico antiquario - personaggi "in perfetta simbiosi, come il paguro e l'attinia" -, colpì nel vivo le più trite convenzioni del genere in Italia, ereditate dai banali ripetitori di Scerbanenco o De Angelis. Pubblicato nel 1973, ruotava intorno a un'elementare cronaca dei fatti, partendo dall'uccisione di un'anziana "senza passato" in un palazzo di Fano abitato da poche famiglie. L'autore, giornalista di rango, utilizzò uno stile secco e conciso, da taccuino, limitandosi ad alternarlo soltanto con brevi sprazzi poetici, in realtà null'altro che criptografie in forma di filastrocche volutamente povere e raffazzonate. In effetti Anselmi, fine conoscitore di Proust e di Simenon, cercava di rivestire in tinte crude l'eredità letteraria che nei suoi libri inevitabilmente doveva premere al disotto della superficie narrativa, per ridurla all'osso, o rovesciarla. E se Beppe Benvenuto, considerando in una nota finale la rosa di protagonisti e comparse di questo romanzo, ne parla come di una "commedia umana al ribasso", si può dire che, come per il furto e l'omicidio descritti da Gadda nella prima parte del Pasticciaccio, allo stesso modo lungo queste pagine l'umanità degradata del microcosmo condominiale si configuri quale specchio d'una società pronta a sacrificare sull'altare della propria ipocrisia il colpevole di turno senza davvero conoscere le radici dei fatti. Nel libro sono facilmente rintracciabili dei rimandi all'ultimo biglietto lasciato da Cesare Pavese prima del suicidio e a Delitto e castigo, ma li lasceremo cogliere al lettore.
Daniele Rocca
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