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recensione di Argentieri, S., L'Indice 1998, n. 8
Dopo cena, sempre di mercoledì, una piccola schiera di giovani "che non aveva nulla da invidiare per ricchezza e varietà di talenti allo stato maggiore di qualsiasi docente clinico" si raccoglie nel salotto di casa Freud per - come scrive egli stesso nel 1914 - "imparare, esercitare, diffondere la psicoanalisi". Circolano liquori, sigari, sigarette e - dopo la lettura della relazione di turno - caffè e dolci (preparati, come sappiamo da altre fonti, secondo le sublimi ricette ebraico-viennesi di Martha Freud).
La Bollati Boringhieri ci offre oggi un'antologia dei verbali delle riunioni, scelti da Mario Lavagetto tra quelli dedicati alla creazione artistica, alla letteratura, al linguaggio. Sono state omesse le comunicazioni marginali, le questioni burocratiche; le note originali dei curatori (gli allievi diretti di Freud, Federn e Nunberg) sono state ridotte al minimo; poco quindi si concede alla filologia e molto al piacere della lettura.
A redigere le minute dietro minuscolo compenso è Otto Rank, un giovane povero e brillante che avrebbe dovuto fare il meccanico, ma che Freud aveva incoraggiato a studiare e che fu il suo beniamino fino alla defezione "morbida" e tardiva del dopoguerra.
È naturale l'oscillare dell'attenzione del lettore dalle curiosità minimali, che danno colore alle grandi avventure del pensiero, alla possibilità preziosa di osservare la nascita dei concetti e delle idee, quando ancora circolano nel discorso del gruppo senza una precisa paternità, granelli di sabbia intorno ai quali si formeranno - talvolta - le perle.
Ma ancor più interessante, a mio parere, è cogliere intuizioni ardite e bizzarre che non avranno fortuna, che usciranno di scena e andranno a costituire il grande rimosso primario della psicoanalisi; un ambito nel quale non è vero che i "se" e i "ma" non fanno la storia.
Si può così vedere come a quelle serate partecipassero i grandi pionieri della psicoanalisi, medici e "laici": Stekel, Adler, Sachs, Federn, Bernfeld...; critici musicali come David Bach e Max Graf (il padre del "piccolo Hans"); scrittori come Fritz Wittels; ospiti illustri come Ludwig Binswagner; e ancora filosofi, educatori, editori, matematici...
In tanto consesso - evento tutt'altro che banale per l'epoca - non mancava la presenza femminile: consorti dei relatori accanto a personaggi di spicco come la "dottoressa H. Deutsch", la "dottoressa S. Spilrein", la "signorina Anna Freud" - annota il diligente segretario -, mentre la fascinosa Salomé è registrata semplicemente come "Lou". Martha Freud, invece, non c'è mai. Tutte, comunque, tacciono.
Particolarmente significative, come è logico, risultano le sedute nelle quali è Sigmund il relatore: quella del 1910, dedicata al lavoro monumentale Sui due principi dell'accadere psichico, accolta dal gruppo con una certa reticenza e con varie disinvolte critiche. Oppure quella intitolata Una fantasia di Leonardo da Vinci - come sottolinea Lavagetto nella sua appassionata introduzione - ci dà l'opportunità irrinunciabile del confronto tra le due stesure del testo, con tagli, scarti, sottili trasformazioni.
Nel corso degli anni si parla di simbolo, di menzogna, di rima e refrain; di sublimazione (concetto infido che rende le opere d'arte da un lato oggetto di venerazione, dall'altro residui incapaci di evoluzione di pulsioni polimorfo-perverse); ma anche del "rivoluzionario come organo per la percezione della decadenza".
Il lettore può constatare quanto Alfred Adler sia aggressivo e quanto Victor Tausk (il giovane suicida, così malinteso da Freud e dagli altri colleghi) sia intelligente e vivace. Certo l'entusiasmo disinibito di chi ha da poco scoperto il nuovo magico strumento dell'interpretazione dell'inconscio produce spesso esiti imbarazzanti: Kleist è un onanista, Grillparzer un nevrotico ossessivo, Wedekind è affetto da inferiorità genitale...
Emblematica di tale "licenza di interpretare" la serata centrata su Karl Kraus, durante la quale vediamo il gruppo all'opera nel restituire pan per focaccia - anzi, nell'anticipare gigantesche pagnotte contro qualche aforismatica focaccina - al caustico critico della psicoanalisi: "uomo deforme", "borghesuccio rabbioso", "paranoico" affetto da "odio nevrotico" per l'infedeltà dell'amata e da "sterilità artistica".
Non mancano, peraltro, le critiche concettuali e gli sforzi di costruire una metodologia affidabile per la psicoanalisi di autori e di opere: "Guai a vedere peni e vagine dappertutto" (Wittels); "Rank dovrebbe accontentarsi di rendere plausibile il probabile" (Frey); "Il ponte esiste, ma non sempre regge" (Freud). È ancora il maestro a raccomandare riservatezza e cautela quando si trattano persone viventi e a mettere in guardia dal rischio di mobilitare "tutto il pesante armamentario della psicoanalisi" per scoprire il nucleo impoverito dell'universale.
Tutti problemi, come si evince, ancora attuali e irrisolti. Per concludere, mi piace ricordare che anche noi oggi, in tante società psicoanalitiche di tutto il mondo, continuiamo a riunirci di mercoledì, magari senza ricordare che stiamo rendendo omaggio alla tradizione. Consumiamo acqua minerale e coca cola, qualche biscottino, niente sigari, anzi spesso si prega di non fumare. Raramente dedichiamo il nostro tempo alle alte sfere della creazione artistica. Ci tiene insieme, piuttosto, la necessità costante e assoluta di condividere il travaglio clinico quotidiano, di utilizzare l'esperienza e la consonanza emotiva dei colleghi per non restare impigliati nelle reti del transfert e del controtransfert.
Certo siamo meno trionfalmente entusiasti, meno innocenti, forse meno colti e geniali, ma - si spera - tecnicamente e teoricamente più rigorosi. Anche se tutt'ora - proprio come scriveva Freud ai tempi eroici delle origini - si fa fatica "a stabilire tra i membri quell'amichevole accordo che dovrebbe regnare tra uomini che svolgono il medesimo difficile lavoro".
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