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Anno edizione: 1991
Anno edizione: 2014
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un genio della letteratura italiana contemporanea. Ogni singola frase trabocca di idee fresche e interessanti, condite da un umorismo non tanto celato. Consigliato soprattutto a chi è in cerca di storie surreali, ma comunque belle.
Romanzo breve postumo, scoperto tra le carte del maestro, in attesa di un'ultima revisione. Che dire? Un'assoluta meraviglia, enigma indecifrabile, ermetico nella sua eterea essenza, un intimo rapimento intellettuale, uno stordimento sensoriale provocato certamente da uno stile senza pari, ma anche da un'atmosfera cupa e nebbiosa costruita ad arte parola dopo parola che surclassa in potenza l'esiguità della trama. Nonostante Re Giorgio non avesse avuto il tempo di dare a quest'opera un'ultima revisione, e anche se a rigor di termini si può parlare di un romanzo incompiuto, per me "La palude definitiva" rappresenta un autentico capolavoro.
Questo libro è l'unico romanzo surreale italiano, ed è un vero capolavoro, riuscendo a contenere mistero, angoscia, avventura e molto altro! E' il capolavoro di Manganelli e lo consiglio a tutti! P.s. I lettori alle prime armi potrebbero avere difficoltà, in quanto lo stile di Manganelli è molto complesso, pieno di arcaismi e ricercatezze! Nicola :-)
Recensioni
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recensione di Papetti, V., L'Indice 1991, n. 7
Alla prima vorace lettura, questa notturna favola postuma di Manganelli appare così ordinata, tanto amorosa nei motivi e nelle figure, tanto minuziosamente fantastica eppure socievole verso il lettore, da invogliare pericolosamente a un'immediata definizione. È un 'anti-Rasselas', un 'conte métaphysique' d'uno scrittore europeo. Accade che sia scritto in italiano, un italiano da gran virtuoso, ma vi stanno acquattati tutti i sogni che sono diventati libri. Il riferimento al neoclassico serve solo a dire cosa l'eroe della palude non è. Rasselas abbandonava le felici acque materne per catalogare l'esperienza e poi tornare a quell'inizio edenico. Il cavaliere della palude è portato invece dal suo fiabesco cavallo dritto al centro del centro, alla casa sulla o della palude, forse un grande uovo cosmico. Quell'involucro materno si sposterà alla fine, scivolerà sulla palude e porterà, esporrà o partorirà la sua creatura paludenga a fronte dell'orizzonte di fuoco. Da dove era partito il cavaliere e quella sua astratta, dolcissima, cavallinità? Dalla città assassina, metafora urbana dell'ombra infera che lo doppia e lo incita al viaggio, all'affabulazione metamorfica, mirando a quel "perfetto spazio iniziale", "prima del prima", quando l'io stesso che guarda giace ancora, inesistente, nel "deposito dei possibili". Qui si svela l'epifania scintillante che la palude accarezza e conserva nelle viscere infinitamente materne. "La nascita, ignota, irreale, scioglie la morte, e la guarigione precede la malattia". Qui si trova il tempo angelico, l'azzeramento della storia, l'idea della fine come significato. L'epifania si spegne e la palude si gloria e si sconcia nelle forme innumeri del sacro e del suo contrario, del mondo diurno e di quello infero. La cavallinità è lo strumento, l'esercizio spirituale che rende possibile la visione, "ma non come esperienza psicologica, come documento dell'io; al contrario, la visione come definitivo spossessamento dell'io, come ritrovamento dell'anima, una dinamica priva del sé e delle sue ambizioni" - parole di Manganelli ("Il Messaggero", 14 agosto 1988) nella recensione alla mia traduzione italiana dell'"Endimione "di John Keats (Bur, 1988). Entro quell'anima a Keats accadeva di poetare, nuotare in quel mare disseminato di secche, sabbie mobili e scogli. Manganelli letteralizza la paludinità, vi s'incorpora come inizio e come fine, come continente e miriadi di minimi e destri corpi palustri. Soffre lucidamente la spietatezza della visione. In quanto visione "La palude definitiva" può collocare la sua fine ovunque, perché è visione della fine, "...l'ombra è più consistente del corpo, la perdizione è il ritrovamento, la salvezza è il dissolvimento". All'ultimo, trentesimo capitolo, la palude si disegna come volto e fa quietamente scivolare da sé cavaliere, casa, cavallinità verso un esodo. La vertiginosa colonna di fuoco che s'erge nella notte aveva già guidato gli israeliti fuori dall'Egitto. "Il Signore marciava alla loro testa... di notte con una colonna di fuoco per far loro luce" (Es. 14.21). Dunque, salvezza o ecpirosi? dannazione o perfetta luminaria? Qui l'aggressività dell'interpretazione s'arresta. Non c'è una verità della visione, tantomeno d'una visione che accade per e nel linguaggio. Manganelli, chi lo ha conosciuto lo sa, parlava e ascoltava sotto il fitto velo della fiction, o menzogna o artificio, il sempre nuovo sempre necessario nascondimento che ricopre ogni nostra abissalità.
Al centro del libro è proposto un gioco "...giocando, ma non senza una patetica seriosità, quale può convenire ad un re di dubbia esistenza, mi chiedo quali dolenti zero verranno ogni tanto a raccogliersi attorno alla tomba zero, con meditazioni ovviamente, sul nulla, sul niente, sul non esistere e il morire senza nascere". Accolgo il suggerimento implicito di praticare una critica zero, leggere una scrittura zero, non quella sotterranea ma quella disseminata da una possibile conversazione quotidiana, fortunosamente deposta in questo testo, elaborato di getto nel settembre 1989. Manca l'ultima revisione. Alcune frasi risuonano pronunciate dalla sua esatta voce chirurgica. Tutto il delizioso inserto parodico sulle divergenti teologie di vermi e bruchi lo proclama il più giovane degli scribleriani. Niente male. Nel magma paludoso vanno anche a cadere profili effimeri del femminile. Il rapporto ilare e drammatico con l'altra è qui perdonabile in anticipo come la non nascita corregge la pena della non morte. Una donna reale e complice abita nella città assassina, la "tenera infanticida" il cui ricordo s'accompagna al ludibrio e al pianto. La palude ne ripete l'immagine e la psicologia - "come è difficile non usarti come figura storica... non darti immagine e usi antropomorfi".
Non stupisce quindi che un treno di invettive sia diretto alla sospettata palude, per dire tutta la violenza d'una intimità con il femminile che gli appare (forse gli fu) insostenibile. "Ma la palude alla verità è indifferente, alla nobiltà oppone distrazione, non ribelle perché è ribellione; ma la sua ribellione è inavvertita, e nessuno, neppure la palude stessa, sa in che cosa consiste codesta rivolta inesauribile e silenziosa. La palude è, vedi, furba; è, sappilo, ingegnosa; è, non ti sfugga, sfuggente. È sempre lontana, ma non si apparta; è sempre pensosa, ma ti appare distratta, è letale, ma sembra accogliente". Il possesso deve essere assoluto e fondarsi sulla verità metamorfica, menzognera di lei. "Oh, amare ciò che non esiste, che sa di non esistere, che sa che noi sappiamo che non esiste, oh quale stremante dolcezza!" Il tradimento è solo virtuosa, salvifica grazia. L'ingiuria è sacrale "...io la chiamo puttana, e mi trovo gli occhi bagnati di lagrime".
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