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Anno edizione: 2004
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Un altro buon romanzo targato Nori: più complesso e lungo rispetto ad altri lavori dello scrittore parmense, ma ben congeniato, curioso e, come sempre, un po' folle. Imperdibile se non disdegnate il futurismo russo.
Splendido. Se, come me, avete amato gli altri libri di Nori, questo vi entusiasmerà.
Svincolato dall'alter ego Learco Ferrari, L'autore incrocia magnificamente tre vicende tra il surreale e l'iper-realistico. Una Biografia, una autobiografia e un romanzo. Alla fine i conti tornano e ci sembra effettivamente di aver vissuto attimi fugaci ma intensi per le strade di Sanpietroburgo e aver respirato l'aria, oramai vuota, dei caffè letterari e della poesia russa dei primi del novecento
Recensioni
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San Pietroburgo, 1912. Le memorie, ricavate dai suoi "diari dell'epoca" a più di cinquant'anni dai fatti, di Pavel Filosofov (Paa), poeta russo d'avanguardia. Il quale assieme a Aleksandr Arbuzov (Saa), anche lui poeta avanguardista, decide un bel giorno di partire per Pietroburgo per gettare finalmente "tutta la letteratura di prima Pukin Dostoevskij Tolstoj dal vapore Modernità". Sperimentano, Paa e Saa, soprattutto quest'ultimo: prima egofuturista, poi pugogolista e pigrista, quindi tabarinista, burljukista, antifuturista, cubofuturista e ancora "unico futurista del mondo", cosmista, nullista. Da fare invidia al flaubertiano Bouvard e al suo amico Pécuchet.
San Pietroburgo, 2002. L'autore, che è stato nella città russa appena l'anno prima, vi ritorna per girare un documentario e reperire materiale utile alla stesura di un romanzo su Viktor Chlebnikov, poeta futurista; si imbatte però nelle memorie di Filosofov, che di Chlebnikov parla ma assai poco, e decide così di modificare in parte l'originario progetto: parlerà anche di Chlebnikov ma, soprattutto, di Paa e Saa e lo farà proprio attraverso le memorie lasciate dal primo.
Il libro di Paolo Nori si snoda così lungo due diverse direttrici temporali, che si alternano ordinatamente, capitolo dopo capitolo, lungo tutta la narrazione: il passato pietroburghese di Paa, condensato in quello scorcio del 1912 che vede esordire l'arte russa d'avanguardia, e il presente dell'autore. Un'alternanza di voci che ricorda in parte Disastri di Daniil Charms, tradotto in italiano proprio da Nori.
Ricorda, Paa, come nel lontano 1912 il mondo, toccato da "certezze definitive", apparisse ai più "intero, sensato, continuo, razionale"; tanto quanto, più tardi, apparirà "frammentario, insensato, discreto, assurdo". Come la Russia, dopo: al tempo, passato, dei ricordi di Paa. Anche per parlare della letteratura, dopo: al tempo, presente, della narrazione di Nori. Che non saprei dire se più disarmante o irritante. Al pari dell'autore, del resto, egoromanziere post-futurista: sofferente di una egolalia in perfetto stile Io speriamo che me la cavo tanto quanto preda dell'"egomania" da cui è affetto Giuseppe Verdi negli Scarti, Paolo Nori fa mostra di aver semplicemente realizzato quel che aveva in animo di fare senza preoccuparsi d'altro: in ciò epigono di Charms, fa "solo quello che vuole, tutto quello che gli piace"; e a lui, come a Charms, piace in particolare "discorrere burlando". Secondo la linea già ben tracciata dalla produzione precedente.
Pancetta. Sembra chiaro perché. La nostra è una natura di "pezzi di carne", racconta Paa che pensasse Andrej Koratygin (con Chlebnikov e Aleksandr Blok). Come quella del pope Koka Brjansk, "maestro di bevute e di mangiate" di Chlebnikov e tanto incline ai piaceri della vita da essere soprannominato Grudinka: "Pancetta". Ci viene in mente l'Aktionismus di Otto Mühl, i suoi corpi nudi che si uniscono carnalmente o si rotolano, cosparsi di marmellata o di cioccolata. Il cibo, nell'action painting di Mühl, come metafora del sesso e questo, a sua volta, come chiave di avvio a una nuova arte psicagogica fondata sull'impossibile amalgama tra la materia corporea e l'involucro alimentare, sull'inconciliabilità dei codici chiamati a parteciparvi.
Come in questo Pancetta, nel quale al rotolamento dei corpi si sostituisce il metaforico rotolo di salume, correlativo co-oggettivo, forse, dei pezzi di carne che siamo, ma necessaria causa, fors'anche, della cosa che è Coratygin/Grundika, pezzo di carne di soprannome, oltreché di fatto. Pancetta e pezzi di carne però, nella peraltro totale assenza del sesso, copulano con il metalinguaggio dell'understatement incarnato, dell'invito al lettore, sia pure filtrato dalla posizione avanguardistica di Paa, a continuare la lettura soltanto in assenza di altro di meglio da fare: un lettore esortato, come nel manifesto del pigrismo di Andrej Koratygin, a rinunciare a leggere volumi per intero.
Ma la pancetta e i pezzi di carne, soprattutto, copulano con una letteratura che non è letteratura, con un linguaggio che non è un linguaggio, con un romanzo che non è un romanzo. Il parallelo con Mühl, così, finisce qui. Perché non esce nessun nuovo oggetto che possa dirsi latamente artistico, sia pure in una curvatura di estrema deformità, dalla fucina di Nori. Anche il lettore, alla fine distanziato se non rifiutato, non è più un lettore. Ma non sarebbe certo una novità. Anche chi esercita la critica di mestiere non è più un critico di mestiere; può essere, che so, un repertoriatore (di immagini? di luoghi? di fatti di stile?) o un catalogatore; non gli si può chiedere, perciò, un giudizio di valore. Neanche questa sarebbe tuttavia una novità. "Le opere di Chlebnikov non bisogna pubblicarle, scrive Majakovskij nel millenovecentoventotto, sono opere destinate a pochi individui". Così si conclude il romanzo - non romanzo di Nori. Come, nuovamente, tanti altri romanzi - non romanzi di ieri e, soprattutto, di oggi. Un romanzo, forse, non destinato proprio a nessuno. Che si muove sulla linea del saccheggio di "pezzi di storie" assemblate insieme in un'improbabile costruzione narrativa; la linea del patchwork di Disastri e, soprattutto, di Scarti. Pezzi di carne, disastri, scarti che cederemmo volentieri in blocco in cambio di uno scampolo di mito. Quello appena accennato da queste parole attribuite a Chlebnikov: "A ogni cosa volevamo dare i nostri nomi". Dare il proprio nome alle cose. Questa forse la soluzione su cui Nori avrebbe potuto puntare per attenuare il suo personalissimo ego nell'indeterminatezza e nell'universalità del mito: il mito di una rifondazione, della ricreazione di nomi che fossero conseguenza di altrettante cose. Ma questo non può certo interessare a Nori: interpellato in merito, ci avrebbe sicuramente sorpresi, come in Grandi ustionati, col finto candore di un "mah!".
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