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L'importanza cruciale attribuita dalla metafisica ai nomi propri, i termini votati a designare un oggetto salvaguardandone la singolarità; la prova ontologica dell'esistenza di Dio, modello insigne della presunta corrispondenza tra parole e cose; il paradosso del mentitore, crocevia dei problemi impliciti in ogni denotazione e di quelli tipici dell'autoriferimento; splendori e miserie della soggettività identificata con l'autoriflessione pura; la stretta parentela tra una specifica forma di afasia e la modalità del possibile; lo statuto logico di quel simultaneo poter-essere e poter-non-essere che chiamiamo contingenza: questi alcuni dei temi che lo studio di Paolo Virno attraversa, spinto dalla convinzione che nella società della «comunicazione generalizzata» la discussione su denotazione e significato, autoriferimento e metalinguaggio, nomi propri e afasia, si carica di implicazioni etiche. Al tempo stesso, il libro si propone un obiettivo «feuerbachiano». Come Feuerbach identificò nella teologia la proiezione transfigurata della realtà mondana, così bisogna ora sforzarsi di rintracciare nelle rarefatte costruzioni della filosofia del linguaggio il profilo dell'esistenza sensibile e caduca. Se già Hegel parlò diffusamente della «divina natura» del linguaggio, «divino» esso è rimasto sia nell'ascetismo tecnocratico delle teorie neopositiviste che nella conviviale bonomia dell'ermeneutica. Lungo tutto il Novecento, la critica della metafisica tradizionale si è fatta merito di leggere «linguaggio» dovunque trovasse scritto «Dio», ritenendo di corroborare così un giudizioso umanesimo: il punto d'onore del pensiero critico - senza perifrasi, del materialismo - sta invece nel mostrare il carattere radicalmente finito della parola umana, restituendo autonomia e rilevanza a ciò che elude e sopravanza ogni enunciazione.
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