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Anni Venti. Una banda variopinta di ricchi inglesi, che il ricco Max ha invitato a una partita di piacere in Francia, si ritrova alla stazione. Una fitta nebbia avvolge la stazione e la storia; una materia grigia che pervade tutto in modo subdolo, provocando scompiglio e disorientamento. Nell’attesa, i passeggeri convocati si danno a un fitto chiacchiericcio, piuttosto banale, sui fatti della loro esistenza. L’autore dissemina il romanzo di numerose allusioni funebri: Alex si vede come “un fantasma che attraversa le strade dei vivi”, Julia pensa alla gente nella hall come se “fossero tutti morti e in attesa davanti ai cancelli”, mentre le pile di bagagli sono come “un cimitero esagerato” e la vista della gente ammassata nella stazione è come una veduta dal patibolo. alla fine la situazione si sblocca e il loro treno può ripartire verso la Francia. Il racconto è prolisso e piuttosto noioso e si perde il gusto della lettura nei meandri convoluti del romanzo. Ho trovato ben più delizioso il celebre pezzo di Rossini Un petit train de plaisir, solcato da una musica felice e luminosa. Alla fine il trenino parte: Rossini si diverte a imitarne la marcia e ci si rilassa con lui lungo il primo tratto del percorso. Segue però un sifflet satanique: brusco risveglio dovuto al fischio del treno, seguito dalla dolce melodia dei freni, che anticipa l'arrivo alla stazione, con les lions parisiens offrant la main aux biches pour descendre de wagon. Provatelo e vedrete che c’è una bella differenza tra lo spumeggiante Rossini e questo deludente racconto.
Splendida prova d'autore di Henry Green, scrittore unico nel suo genere e capace di sollevare magma interiori come pochi - precursore (quasi) o seguace di Lacan, grazie alla infinita maestria nell'uso dei dialoghi è capace di creare atmosfere uniche ed inquietanti nella loro apparente normalità o superficialità; il suo occhio non riesce mai ad alzarsi più di tanto dall'orizzonte:insomma c'è qualcosa di profondamente apocalittico in Green e soprattutto in questo suo romanzo (meglio leggerlo, se possibile, in lingua originale - anche se questa traduzione è veramente ottima).Unico difetto: scrittore veramente per pochi, appassionati o per addetti ai lavori.
Recensioni
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Quando nel 1973 Henry Green scompare, all'età di sessantotto anni, dopo aver pubblicato nove romanzi e una manciata di racconti e saggi (tutti elogiati dalla critica e tutti ignorati dal pubblico), se ne va uno scrittore che aveva cercato di essere testimone del suo tempo con uno stile che si apriva a nuove suggestioni espressive, ma non rinnegava i modelli proposti dai rappresentanti più autorevoli del modernismo letterario.
Con Partenza in gruppo (Party Going, 1939) Green mette in scena la crisi della upper-middle-class inglese. Al centro del racconto è un gruppo di giovani ricchi, belli e sfaccendati diretti nel sud della Francia che, a causa della nebbia, restano bloccati alla stazione di Londra. Nell'attesa che la nebbia si diradi, l'anfitrione del gruppo, Max Adey, affitta alcune stanze nell'albergo della stazione. In sua compagnia sono Alex, Claire e Robert, Julia (che Max corteggia), Evelyn e Angela che, mentre tiene sulle spine il povero Robin, attende la sua occasione per conquistare Max. Oltre ai soliti pettegolezzi, l'argomento della conversazione riguarda il malore che d'un tratto ha colto la signorina Fellowes, zia di Claire. Prima di giacere priva di sensi in una stanza dell'albergo, la donna aveva raccolto il corpo di un piccione che, a causa della nebbia, si era schiantato contro un imprecisato ostacolo. La situazione si complica quando sulla scena giunge Amabel, la fidanzata non ufficiale di Max. Nel frattempo, le porte dell'albergo vengono sbarrate per evitare che la folla di pendolari raccoltasi nella stazione in attesa di un treno possa irrompervi in cerca di riparo.
È soprattutto l'unità di tempo, luogo e azione a consentire a Green di mettere in luce, grazie anche a un sapiente uso del dialogo, le dinamiche interne al gruppo. Dalle parole che si scambiano i personaggi e dal modo in cui è costruita la voce narrante, risulta presto evidente come la nebbia che avvolge ogni cosa, rendendo indistinti i contorni di persone e oggetti, sia il simbolo di una crisi tanto epistemologica quanto ontologica, che trova il suo correlativo formale nel linguaggio opaco, introflesso, spesso allusivo dei personaggi. La sintassi non di rado incerta che questi esibiscono, nel mentre denuncia limiti soggettivi, mostra l'insufficienza del linguaggio in quanto tale a fungere da impalcatura cognitiva per un mondo che si va facendo sempre più indecifrabile.
Un elemento, in particolare, ritorna con frequenza tanto nel discorso della voce narrante quanto nelle fatue conversazioni del gruppo: quello della folla. Quasi si fosse materializzata dalla nebbia, la massa anonima di pendolari che riempie la stazione sembra incarnare una promessa di minaccia. In questa sorta di contatto fisico con la classe media, il gruppo si sente minacciato da un'assimilazione che livellerebbe ogni differenza sociale, eliminando, insieme a privilegi radicati, ogni traccia identitaria. E infatti di lì a poco questa folla, simile a un attore senza volto ma sicuro di sé, che avanza dalle quinte della Storia per conquistarsi il centro della scena, ridimensionerà, complice la guerra e i suoi sconvolgimenti, l'importanza della classe sociale di cui qui il gruppo è espressione. Già nelle prime pagine del romanzo, questa massa così temuta si insinua nello spazio isolato dell'albergo sotto le spoglie di un misterioso omino che si materializza nel momento in cui la signorina Fellowes si sente male, per poi entrare e uscire dall'albergo con l'ambigua grazia di un fantasma.
A detta di Tim Parks, al quale si deve un'elegante postfazione, l'angoscia che i personaggi avvertono di fronte alla moltitudine raccolta nella stazione è la stessa che gli esseri umani provano di fronte alla morte. È lei, infatti, a sottrarre a tutti i corpi forma e identità. Non a caso, l'intero romanzo è intessuto di immagini di morte, dal piccione dell'incipit ("La nebbia era densa; un uccello che era stato disturbato colpì in pieno una balaustrata e lentamente cadde, morto, a pochi passi da lei"), ai bagagli che il narratore paragona ad altrettante lapidi in attesa dei proprietari, alla folla che l'uomo misterioso guarda dalla finestra dell'albergo "come una veduta dal patibolo", e che gli sembra formata da "vacche da macello".
Il testo, però, cela significati più complessi. Poco più avanti Julia, convinta che la folla abbia invaso l'albergo, se la immagina come un'orda di ubriachi assetati di sesso: non solo la massa è sporca e fetida come la morte, ma possiede anche istinti animaleschi che ne fanno una massa bruta, incolta, priva di corpo e di volto. Come la nebbia che invade le strade di Londra, o come la nera massa d'acqua che riempie di sé gli incubi notturni della signorina Fellowes (il motivo eliotiano della death by water è un tratto intertestuale che ricorre spesso), la folla è imposta al lettore come una fluttuante e magmatica forza della natura che erode le porose fondamenta dell'identità borghese, ivi compreso il facile razionalismo che la connota.
Come accennato in apertura, Green dimostra di essere un vero virtuoso nell'uso del dialogo. La voce narrante, che si fa udire solo quando la sua assenza renderebbe troppo ellittico il testo, si sposta con scarti improvvisi, registrando le voci dei personaggi come se provenissero dall'esterno, dalla stanza accanto. Ne deriva spesso una composizione per frammenti, che ricorda la tecnica cinematografica, con la macchina da presa che racchiude ogni oggetto nel proprio sguardo indifferente (non dimentichiamo che Green era amico di Isherwood, il maestro della camera-eye technique). Un occhio freddo ma, per così dire, democratico, poiché non si limita a osservare il mondo dall'alto di una torre d'avorio, ma scende giù in stazione, mescolandosi alla folla dei pendolari, di cui registra posture e voci. In tal modo possiamo ascoltare, per esempio, ciò che si dicono i facchini e gli autisti del dorato gruppo, fermi davanti alle valigie-lapidi come parenti e becchini in attesa delle loro mortali spoglie.
Stefano Manferlotti
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