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Prima che avanzasse l'idea del dialogo interreligioso, oggi pratica comune tra le élite intellettuali dei monoteismi istituzionalizzati (altro discorso è quello che riguarda l'amplissimo milieu dei "militanti della fede", assai poco propensi allo scambio culturale), alcuni precursori andavano già interrogandosi sulla natura dell'esperienza religiosa dell'altro da sé. Se il mondo musulmano restava un continente vissuto più attraverso il contato quotidiano che non per mediazione intellettuale, quello invece protestante e cattolico, nell'età dell'emancipazione, veniva assurgendo a irrisolto paradigma di desiderio e di rifiuto. In questo senso, già nel primo Novecento, in campo ebraico va definendosi un pensiero sul cristianesimo che, pur originando da una pluralità di pensatori che facevano scuola a sé, senza trasmettere lascito che non fosse quello puramente intellettuale, andò poi consolidandosi, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II che offrì a costoro involontaria sponda. Il libro di Marco Morselli ci regala una panoramica, attraverso dieci medaglioni, di studiosi ebrei che si sono interrogati, molto spesso in splendido isolamento, sulla "contemporaneità del cristianesimo", evitando la vexata quaestio del Messia, ma interrogandosi sull'escatologia messianica di quanti sono "venuti dopo". Il fulcro della loro proposta ruota intorno alla categoria della teshuvah, il pentimento (in questi caso dei cristiani), che costituirebbe il preludio della realizzazione dei tempi della redenzione. In questo modo la prospettiva di approccio viene ribaltata, non giocando più sulla conversione degli ebrei ma sulla consapevolizzazione dell'umanità. Una lettura, questa, poco appetibile a molti rabbini, ma molto in sintonia con la lettura della modernità da parte di un rilevante filone del pensiero ebraico pre-olocaustico.
Claudio Vercelli
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