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Questo studio intende contestare, basandosi sugli archivi del Maggior Consiglio, del Senato e del Consiglio dei Dieci, oltre che sulle testimonianze dei diaristi del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento, la visione di un patriziato veneziano dotato unicamente di virtù. I limiti cronologici del libro vanno all'incirca dalla costituzione del patriziato come casta chiusa sino alla battaglia di Agnadello (1509). La ragione del "terminus ad quem" è che nel XVI secolo ebbe inizio la decadenza del patriziato veneziano, che proseguì sino alla fine della Repubblica. Se la nobiltà cinquecentesca fu davvero decadente, e se questa deviazione non può essere ascritta ad una causa peculiare dell'epoca (depressione economica conseguente alla scoperta delle rotte del Capo e del Nuovo Mondo; trauma della guerra della Lega di Cambrai) l'A. si chiede se questi patrizi del Cinquecento fossero tanto diversi dai loro predecessori. La sua tesi è che i nobili del Quattrocento erano generalmente guidati dall'interesse personale quanto quelli del secolo successivo, e quanto la maggior parte degli uomini. La ricerca di Queller ha il merito di prendere in considerazione l'esistenza dei nobili poveri: infatti, solo pochi fra i patrizi facevano parte dell'élite da cui provenivano dogi, consiglieri dogali, Savi grandi e membri del Maggior Consiglio. Il declino commerciale del XV secolo esasperò le difficoltà di quanti non erano ricchi, ed in quel periodo divennero più lampanti le prove di irresponsabilità civile. Tuttavia, non è un quadro ingenuamente iconoclasta quello che risulta dalla lettura dei densi capitoli del libro, ma un profilo realistico della classe dirigente veneziana. Dietro quello che può apparire un attacco diretto al mito del patriziato veneziano, non c'è da parte del Queller alcun compiacimento, bensì l'intento di evidenziare una realtà complessa e più adeguata, forse anche più ambigua, come sempre è la realtà umana.
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