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Nei due saggi raccolti in questo volume, Nathalie Sarraute cerca di rispondere a un’identica domanda: in che modo uno scrittore deve leggere la letteratura? Quali rapporti deve intrattenere con i testi altrui? Partita da una rilettura di Valéry e di Flaubert, la Sarraute si è ritrovata ben presto come impacciata e distratta dalla selva di interpretazioni e riflessioni critiche che circonda i “classici”, siano esse letture acritiche e adoranti, o applicazioni interessate di metodi prefissati. Pungenti come sono, queste pagine potrebbero essere scambiate per un pamphlet contro le prevaricazioni della critica. In realtà l’operazione della Sarraute è più sottile: proprio sottoponendo a un vaglio impietoso le interpretazioni che di Valéry e Flaubert si sono date via via, finisce per fornirci preziose informazioni – quasi per negativo – sul proprio laboratorio di scrittore, rivendicando quella libertà di approccio che sappia cogliere senza filtri e interferenze il vitale dinamismo, la freschezza poetica di un testo. Siamo insomma al cuore del rapporto tra letteratura e critica, che continua ad essere uno dei luoghi più frequentati della cultura contemporanea. Non accade spesso di registrare su questo tema la presa di posizione di un narratore: l’intervento della Sarraute si distingue ancora una volta per il suo provocatorio rigore, che sembra agire in nome e per conto delle sovrane ragioni della scrittura.
recensione di Cacciavillani, G., L'Indice 1989, n. 4
Preceduto da una "Nota dell'editore" (ove, certo per un divertente refuso, la rivista "Digraphe" diventa una biblica "Diograph", questo volume, il quarto della serie einaudiana dei "Saggi brevi", raccoglie due splendidi interventi critici della Sarraute, che sono ad un tempo brillanti stroncature (di Valéry e di Flaubert) e raffinate analisi d'autore. Mi limiterò qui ad un cenno sul saggio flaubertiano, originariamente uscito su "Preuves" del febbraio 1965 (praticamente coevo al suadente lavoro di Brombert, che puntualmente cita la Sarraute).
Esaminando la pagina flaubertina al puro livello della scrittura (livello per il quale Flaubert è stato beatificato rispetto a Balzac, Stendhal e Zola), ci si accorge subito che prevale la "pura ossessione dello stile". Analizzando al microscopio quattro campioni tratti da "Salammbô", la Sarraute mostra come il ritmo dei periodi sia pesante e rigido, senza nessun disordine vitale, senza disinvoltura e soprattutto senza nessun "tremore che faccia urtare qualcosa di sconosciuto ". Flaubert pare isolare, inquadrare la sostanza del romanzo e poi inesorabilmente immobilizzarla (è, fra l'altro, il rilievo che fa Brombert a livello tematico): in particolar modo la "e" (come pure "tuttavia ", "dopo", "infine", "allora ") funziona quale raccordo presentito (attesa non frustrata) dal lettore, che viene così "rassicurato" che nulla di nuovo, nessun "trasalimento" nessuna "libertà" si produrranno. Il tempo si rimette in marcia, dal periodo concluso esce un prolungamento e una "nuova pesante massa si forma". C'è, nel profondo di Flaubert, là dove nessuno ha mai osato attaccarlo, nella pagina scritta, "un vizio di scrittura impensabile in un autore così preoccupato di raggiungere la perfezione assoluta della forma".
Qui il giudizio della Sarraute è esattamente speculare rispetto a quello di Proust (nel famoso "A proposito dello stile di Flaubert"). Ma è questa la letteratura, è così che noi leggiamo i romanzi? No certamente: "Il nostro punto di vista è più vasto e abbraccia tutto quello che le parole ci propongono, significano, al di là di quello che affermano. A differenza dei suoni musicali, delle forme plastiche, dei colori, esse non s'impongono da sole e non riescono ad essere autosufficienti. Sono percepite come significato e dipendono necessariamente da questo". Flaubert, in realtà, un po' come i Parnassiani, punta tutto sul "quadro", sulla "descrizione": ma entrambi sono di dubbia qualità, derivano da oggetti prefabbricati, già utilizzati, da clichés privi di vita. Siamo lontani dalla "sensazione pura" che "fa esplodere la frase tradizionale e dà alle parole un senso nuovo o addirittura le altera e le reinventa" (vedasi Rimbaud, Mallarmé, Joyce). Ma v'è di più: in Flaubert non c'è problematicità psicologica, perché la sua psicologia si fonda su nozioni tradizionali e superate. Dov'è la messa in opera di "forze psichiche inconsce", che sono la base di tutta la letteratura e di cui nessuna forma letteraria può fare a meno?
Malgrado ciò, Flaubert è uno dei precursori del romanzo moderno, perché ha scritto "Madame Bovary". "Madame Bovary" è la messa in scena dell'inautentico, Flaubert ha trovato una giusta distanza interiore, fra distacco e impegno totale, fra repulsione per il personaggio e tenerezza per il proprio vissuto. Se tutto è fondato sulla convenzionalità, sul "trompe-l'oeil", sul "cliché" (Stefano Agosti avrebbe poi sviluppato questi punti), si ha una straordinaria coincidenza fra soggettività del personaggio e soggettività dell'autore. Flaubert ha toccato l'autentico proprio analizzando l'inautentico (il suo "falso Sé", in termini di Winnicott).
Libri su niente, senza soggetto, senza personaggio, senza intrecci e vecchi accessori, prossimi così all'arte astratta: è il sogno ultimo di Flaubert, parzialmente realizzato in "Bouvard et Pécuchet". "E non è questa la strada verso cui tende il romanzo moderno? E come dubitare che Flaubert non ne sia il precursore?".
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