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La paura è, dopo Per questa rilassata acida voglia (1985) e Il guizzo irriverente dell'azzurro (1995), la terza raccolta poetica di Riccardo Held. La cadenza più che decennale delle pubblicazioni sottende una ricerca cauta, accorta e dagli esiti davvero alti: se la critica (Alfano, Frasca) ha potuto includere i versi d'esordio di Held nel cosiddetto fenomeno del "rinascimento delle forme", per il recupero delle strutture liriche tradizionali, ora sembra prevalere una più mossa sperimentazione, intesa tuttavia in senso opposto rispetto alle trascorse linee neoavanguardiste. Il libro è sapientemente costruito: a una rigorosa quadripartizione seguono due sibilline appendici (Di prima I e II); in chiusura della più impegnativa Parte prima, che comprende il poemetto La paura da cui il titolo dell'intera raccolta, è collocata la Pausa in prosa, vera e propria zona di combustione gnomica fra io e mondo, che preannuncia la ripresa dolorosamente parodica di Una convivialità per spiriti davvero elevati e soprattutto di Non hai finito, situate nella seconda parte. Nella parte terza e quarta prevalgono l'equilinguismo italo-tedesco e le presenze "paterne" di Rilke, Kafka e Benn. Le due appendici sembrano, infine, raccordarsi all'estremismo classicistico delle due prime raccolte, con testi brevi di isolate terzine o quartine cristalline, fino agli splendidi sonetti Per mio padre e Ma corri, seguila fino alla porta, già presente in Il guizzo irriverente dell'azzurro. Affrontando i singoli testi, si può dire innanzitutto ciò che Held non è: non un epigono neoheideggeriano, non un orfico postmoderno. La paura, bipartita fra voce materna e paterna, fra pulsione di morte e fantasmi dell'eros, qui non è il risultato dell'essere-per-la morte, ma del confronto agonistico con la materialità dell'esistenza. Le rivitalizzazioni dei poeti tedeschi e italiani, da Benn a Leopardi, non sono risolte in falsetto disincantato, ma in assunzione di eredità o negazione, torsione e rovesciamento, come nel caso esemplare dell'Infinito: "Ostile ti sarà sempre quel piano / e questa linea che da nessun luogo, / di nessun orizzonte l'occhio include" (Non hai finito). La voce in La paura sente il bisogno di fare appello non solo a un io e a un tu ma anche a una comunità ("Cari amici, cari colleghi"; "So cari amici che vi chiederete") a cui ci si rivolge in modo provocatorio e farneticante. Sia che prenda le mosse dai "congegni" che preludono alla morte biologica che dai guizzi intermittenti dell'eros, la pulsione della paura serve in primo luogo a straniare un corpo sociale ossessivamente intento a "prendere per vero il falso", all'"inconsistenza" o allo "scambio di denaro o di favori". Ecco perché dall'io Held può slittare al noi, oltre ogni retorica sulla "fine dell'esperienza": il noi senza illusioni che accomuna, con un sarcastico gioco di parole, il destino e l'orgoglio di homo sapiens a quello dell'aspirapolvere: "anche noi, anche noi, nel nostro piccolo / aspiriamo alla polvere!". Un altro poeta italiano, negli anni cinquanta del Novecento, aveva scritto un poemetto dal titolo La paura, dedicato agli "amici di Officina" Pasolini, Roversi, Leonetti, Volponi. Anche lì i fantasmi famigliari erano "divorati dall'ombra". Anche lì la paura era "la libertà della contraddizione / che porta al dolore le parole".
Emanuele Zinato
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