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Il testo ci spinge a riflettere sui termini che all’interno della società multietnica generalmente vengono adottati per riferirci agli altri, per rappresentare gli stranieri, ad esempio, ponendo l’attenzione ai rapporti di forza, ai pregiudizi politici, psicologici, economici e culturali che vengono messi in circolo in questi percorsi definitori, semplificando una situazione molto complessa. Solitamente si usa definire gli stranieri con i termini immigrati, migranti, extracomunitari, talvolta clandestini, rifugiati, senza ulteriori precisazioni in riferimento alla loro provenienza, alle ragioni, siano esse culturali, politiche, economiche, volontarie, per cui hanno lasciato i loro paesi. Si tratta, ovviamente, di imprecisioni che non possiamo più permetterci, per cui oggi occorre prestare attenzione alle parole che usiamo perché esse nascondono dei chiari messaggi politici, nel senso che sono segno di un chiaro squilibrio di potere tra la classe politica dominante e quella subordinata. Da questo punto di vista, uno degli obiettivi della pedagogia interculturale è proprio quello di comprendere i processi mediate i quali i soggetti sono definiti stranieri o trattati come tali. Per fare ciò occorre una incursione nella sociologia della conoscenza, cioè nel processo mediante il quale i soggetti percepiscono la realtà e la classificano in base a delle categorie, ma anche nella psicologia sociale, nell’antropologia, nella linguistica, giacché la costruzione dell’universo simbolico avviene sempre mediante un linguaggio. In tal senso l’educazione interculturale si profila, con una certa urgenza, come un processo di costruzione di una identità nuova, più aperta, disponibile, eticamente responsabile del futuro dell’uomo e della donna.
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