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L'agile e al contempo ricco e stimolante libro di Franklin Zimring "non è", come scrive Cristina De Maglie nel presentarlo, "solo un altro contributo" al tema della pena capitale negli Stati Uniti. Esso è assai di più. È il frutto di un'attenta analisi, condotta da una delle più autorevoli voci critiche della letteratura giuridica americana sul filo di un discorso capace di intrecciare saperi differenti, che vengono tutti messi in campo per dare una risposta a quell'interrogativo che qualunque europeo non può fare a meno di porsi di fronte alla tenacia con cui la pena capitale persiste negli Stati Uniti. Come può, nel XXI secolo, una sanzione così ferocemente primitiva essere ancora parte del bagaglio sanzionatorio di un sistema che l'immaginario collettivo identifica con il modello più avanzato di civiltà?
Vero figlio del realismo giuridico nordamericano, la cui cifra del successo è rappresentata dall'interdisciplinarietà dell'approccio scientifico, Zimring offre al lettore un quadro variegato, capace di fornire una spiegazione a tutto campo dell'enorme divario fra sensibilità europea e statunitense sul tema dell'omicidio di stato.
La singolarità degli Stati Uniti rispetto al resto dei paesi della tradizione giuridica occidentale non è individuata dall'autore soltanto nel suo essere una nazione plurale, in cui coesistono stati e popolazioni che hanno ripudiato la pena di morte ben prima degli stati europei (come il Michigan, che l'ha abolita nel 1846), stati che l'hanno mantenuta solo nominalmente giacché non eseguono le condanne capitali o ne eseguono pochissime (come l'Ohio), e infine stati in cui il tasso di esecuzioni è comparativamente alto o altissimo (come il Texas o la Virginia), per modo che "essere condannati a morte rappresenta una minaccia 150 volte più seria in Virginia che in Ohio, e 40 volte più seria in Texas che in Tennessee". Né, secondo Zimring, l'eccezionalità statunitense può trovare soddisfacente spiegazione nel federalismo estremo che caratterizza la forma di stato nordamericana, da cui discendono delicatissimi equilibri fra ordinamento federale e ordinamenti statali, che pure possono implicare un forte rispetto delle esigenze di autonomia e sovranità degli stati nei confronti di eventuali politiche federali di tipo abolizionista.
La vera ragione della peculiarità degli Stati Uniti, che sola fra le potenze occidentali moderne mantiene la sanzione capitale, viene infatti colta dall'autore in un tratto profondo della cultura americana, che fa capo a una tanto risalente quanto pervicace tradizione di valori improntati all'autotutela, entro cui la pena di morte trova oggi collocazione e legittimazione. Si tratta della tradizione violenta del "vigilantismo", che esprime l'adesione al mito di un controllo non statale del crimine e si riallaccia ai tempi bui dei linciaggi da parte di gruppi di vigilantes (antica versione delle moderne ronde di casa nostra) contro i nativi americani e gli afro-americani. Nel sorprendente parallelismo fra gli stati americani che eseguono oggi il maggior numero di condanne capitali e quelli in cui cento anni fa erano più assidui i linciaggi, Zimring trova conferma della sua tesi. È dunque il forte attaccamento della cultura americana a un ideale di giustizia "fai da te", la cui spia odierna è il diritto (da poco definitivamente costituzionalizzato) dei cittadini statunitensi ad armarsi o a reagire in legittima difesa uccidendo chiunque provi a violarne la proprietà privata, a spiegare secondo l'autore la particolare intensità del sostegno alla moderna pena capitale negli Stati Uniti.
Si tratta, infatti, ed è questo il punto saliente dell'intera analisi, di una pena completamente trasformata nella sua simbologia rispetto alla "vecchia" pena di morte, quella cioè dichiarata incostituzionale nel 1972 dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Furman v. Georgia. E invero, la nuova pena capitale costituzionale, che nasce dopo il 1976 con il caso Gregg v. Georgia, non rappresenta più nell'immaginario collettivo una manifestazione del potere dello stato, ma piuttosto un servizio offerto dal governo ai parenti delle vittime di reato. A questa trasformazione simbolica concorrono sia il mutamento del linguaggio politico e mediatico riguardante la pena di morte sia l'introduzione di meccanismi capaci di garantire l'intervento della comunità di appartenenza della vittima nella fase processuale della commisurazione della pena. L'esecuzione del condannato diventa, infatti, nella retorica dominante "un'occasione [per i familiari e gli amici della vittima] per giungere a una conclusione a livello psicologico ed emozionale (psychological closure) della vicenda che li ha coinvolti, un momento in cui (
) un congiunto si pensa possa liberarsi del peso del dolore e della rabbia per la perdita causata dall'omicidio". Mentre le norme, che, dopo il 1977, consentono a parenti e amici delle vittime di testimoniare il dolore sofferto per la perdita del proprio caro di fronte a quella stessa giuria che dovrà decidere se mandare a morte il reo, rafforzano inevitabilmente la possibilità di un transfert psicologico fra vittime e giurati, i quali ultimi finiranno per identificarsi nelle esperienze di sofferenza delle prime.
Nello spostamento, tutto americano, della finalità della pena capitale dalla soddisfazione dell'interesse pubblico a quello privato, di sostegno psicologico alle vittime, sta dunque, secondo Zimring, tanto la spiegazione della diversa sensibilità statunitense verso la pena di morte rispetto all'Europa abolizionista quanto la ragione del nuovo pervicace radicamento, dopo il 1976, dell'omicidio per mano dello stato nella cultura americana.
L'America dei vigilantes si scontra però con un'altra America, quella attenta alle garanzie dell'individuo contro gli abusi che possono derivare dal potere pubblico. Il popolo del due process sa bene che la pena di morte impedisce la riparazione degli errori della macchina della giustizia e per questo vi si oppone. E proprio in nome del giusto processo, dal 1976 in poi, la pena capitale subisce negli Stati Uniti progressive limitazioni. Corti Supreme federali, tanto progressiste che conservatrici, hanno nel tempo imposto regole processuali di garanzia e ristretto sia oggettivamente che soggettivamente l'ambito di applicazione della pena di morte. Cosicché la pena capitale oggi non può più essere eseguita nei confronti dei malati mentali gravi (Ford v. Wainwright, 1986) o irrogata ai ritardati mentali (Atkins v. Virginia, 2002) o ai minori di diciotto anni (Roper v. Simmons, 2005) o, ancora, imposta per lo stupro di una donna (Coker v. Georgia, 1977) o, più in generale, per reati contro la persona che non abbiano causato la morte di un essere umano (Kennedy v. Louisiana,2008), né può essere decisa senza l'intervento della giuria nell'accertamento delle circostanze aggravanti che determinano la sua possibile irrogazione (Ring v. Arizona, 2002).
Basteranno queste limitazioni a salvare dalla morte la pena di morte negli Stati Uniti? Le sempre più forti restrizioni che hanno circoscritto la pena capitale rappresentano uno stabile punto di equilibrio fra le opposte tendenze delle due Americhe, quella dei vigilantes e quella dei due process people, oppure costituiscono un avvio di condanna a morte della pena di morte? La questione resta aperta, anche perché quelle opposte tendenze sembrano spesso spingere a singhiozzo ciascuna nella propria direzione. Qualunque risposta il futuro ci riservi, il libro di Zimring resta un utilissimo punto di partenza per ogni riflessione in merito.
Elisabetta Grande
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