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Nei confronti della pena di morte si può essere favorevoli, contrari o indifferenti. Uno stato no, deve scegliere, tertium non datur: o la prevede o non la prevede. Antonio Marchesi concentra la sua attenzione sulla frattura nel blocco occidentale tra Europa e Stati Uniti analizzando le fonti giuridiche che disciplinano la materia. A partire dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948, da quando cioè si apre la stagione dell'internazionalizzazione della pena di morte. La partita tra abolizionisti e mantenitori ha nel tempo cambiato campo di gioco: dalla questione di principio, dove non ci sarebbe mai stato spazio al dialogo, si è spostata altrove. Gli abolizionisti per scongiurare un inutile scontro frontale hanno infatti cercato altre vie, hanno "lavorato attorno" per limitare il più possibile l'applicazione della pena di morte agendo dall'esterno, pur nel rispetto delle singole autorità statali, attraverso delle efficaci barriere soggettive (sulle persone imputabili), oggettive (sui reati commessi) e procedurali (garanzie sul corretto procedimento e divieto di punizioni crudeli e inusuali). La concezione retributiva della pena e quella utilitaristica, incentrata sulla deterrenza, sono i cardini su cui ruotano le ragioni dei mantenitori. Entrambe queste posizioni sono sconfessate da studi commissionati a organismi sovrastatali che dimostrano l'inefficacia dissuasiva della pena capitale, ma nonostante ciò, l'opinione pubblica americana resta ancorata al mito dei suoi effetti sociali positivi. Da sondaggi effettuati, però, una buona parte di quelle stesse persone, una volta in possesso di questi dati statistici, cambia parere. In definitiva, è l'ignoranza che affolla i bracci della morte. La pena di morte resiste negli Stati Uniti perché qui i decision-makers non intervengono sulla questione lasciando che se ne parli solo in campagna elettorale quando i candidati la strumentalizzano mostrando intransigenza contro il crimine per raccogliere i voti dei più sensibili al tema della sicurezza.
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