Pubblicato nel settembre del 2012 dalla Princeton University Press, il libro di Peter Brown ha subito ricevuto, oltre a premi prestigiosi, numerose ed entusiastiche recensioni, che lo hanno giudicato un capolavoro, il punto culminante di una brillante carriera iniziata nel lontano 1967 (Brown è nato nel 1935) con un altro capolavoro, la biografia su Agostino (Agostino d'Ippona, Einaudi 2005). Il titolo riprende il famoso detto di Gesù (Matteo 19, 23-24), che ha segnato la storia, almeno esegetica e ideologica (un aspetto a cui Brown non presta attenzione), dei rapporti tra cristianesimo e ricchezza: "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli". A cominciare dal trattatello della fine del II secolo di Clemente Alessandrino È possibile che il ricco si salvi? non si contano le prediche e le riflessioni dei Padri su questo tema, che è ritornato poi nella ricerca moderna sotto forma di un semplice ma fondamentale interrogativo: come è stato possibile che una religione nata sotto il segno di una rinuncia radicale alla ricchezza sia diventata nel volgere di pochi secoli una religione ricca? Come si evince dal sottotitolo del libro, la storiografia moderna ha affrontato questo tema nell'ottica di un problema più generale: la caduta dell'impero romano, secondo una prospettiva dominata dal capolavoro di Edward Gibbon. In uno spirito tipicamente illuministico, il grande storico scozzese individuò le cause del declino e della caduta dell'impero nell'ascesa del cristianesimo, una religione superstiziosa che seppe insinuarsi nei gangli malati di questo organismo, affrettandone la fine. Altri grandi storici corressero questa prospettiva, ma non la mutarono nella sua sostanza. Ancora negli anni sessanta del secolo scorso l'espressione dominante per definire l'epoca oggetto del libro di Peter Brown era later roman empire. Poi iniziarono a uscire i lavori dello storico irlandese, che contribuirono in modo decisivo a cambiare la geografia e la percezione di quest'epoca. Il lavoro su Agostino restituiva la figura di un uomo rappresentante di un epoca non certo in decadenza, ma vibrante di nuove energie. Pochi anni dopo, nel 1971, in un libretto che doveva inaugurare una nuova stagione di studi, Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a maometto (Einaudi 1980) con grande audacia Brown affermava l'esistenza di un nuovo territorio storico (con annessa possibilità di riviste, cattedre e carriere accademiche per un'intera generazione di più giovani studiosi europei e americani, molti cresciuti sotto la sua egida). Anche se il termine deriva dalla storia dell'arte (e precisamente da Alois Riegl) e anche se in tempi recenti è stato duramente criticato, di fatto esso si è imposto con una nuova cronologia (e talora corrispettivi dipartimenti) molto fluida ma che grosso modo oscilla tra il II secolo (secondo una prospettiva favorita dallo stesso Brown nelle sue Jackson Lectures tenute ad Harvard nel 1976 e pubblicate in Italia solo nel 2001 come Genesi della tarda antichità (Einaudi) 2001 e l'avvento dell'islam. Nei lavori successivi, come Il culto dei santi del 1981 (Einaudi 1988) e Il corpo e la società del 1988 (Einaudi 1992), Brown esplorò da par suo alcuni aspetti caratteristici di quest'epoca, contro il paradigma gibboniano che opponeva dualisticamente paganesimo e cristianesimo sottolineando gli intrecci profondi che legavano questi mondi. Una delle critiche rivoltegli era che si concentrava troppo sugli aspetti culturali del cambiamento, seguendo in questo la via aperta da Robert Markus e trascurando così le dimensioni materiali, economiche e politiche. Di qui una svolta che non deve sorprendere chi ha seguito la sua produzione, caratterizzata da una sorprendente capacità (degna dell'Agostino delle Retractationes) di aggiornamento e di messa in discussione dei risultati raggiunti alla luce di nuove scoperte e delle critiche pertinenti e che si è tradotta, a partire dal 2000, in un'attenzione per il tema dell'uso della retorica da parte dei Padri come strumento di potere e per quello della povertà. Il suo ultimo libro, su questo sfondo, idealmente conclude questo complesso itinerario di ricerca, affrontando il tema complementare della ricchezza. È impossibile in questa sede dar conto della straordinaria ricchezza del libro, che apre nuove piste di ricerca, nel contempo demolendo una serie di luoghi comuni storiografici. Il filo rosso della ricchezza serve in realtà all'autore, come uno stetoscopio, ad auscultare il cuore di una società, quella romana compresa tra la metà del IV secolo e la metà del VI, in fibrillazione per profonde spinte interne ma anche per il confronto con la nuova religione ammessa nell'agone imperiale da Costantino. Nella complessa struttura del libro, costruito in cinque parti e caratterizzato da continui andirivieni tra le varie regioni della parte occidentale dell'impero, decisivi risultano i capitoli terzo e quarto. Il primo descrive le fonti della ricchezza e i suoi usi nella società imperiale dominati dall'amor civicus che si traduceva nella filantropia e nell'evergetismo delle classi dirigenti che portavano i ricchi, in una sorta di do ut des, ad aiutare i cittadini poveri (i non cittadini erano esclusi) finanziando l'annona e il circo mediatico, costituito da giochi gladiatori, corse, spettacoli, elemento essenziale delle varie forme della religione civica antica. Il secondo analizza la torsione profonda che l'uso ammesso della ricchezza conobbe nel cristianesimo, dove le donazioni e le offerte erano una forma di transazione religiosa che si rivolgeva a poveri che mutavano a seconda delle circostanze (spesso le donazioni servirono a costruire chiese e monasteri), e si identificavano con un "popolo di Dio" che, secondo il modello dell'antico Israele, rivendicava ora non il pane e i giochi ma la giustizia. Col tempo, queste offerte divennero una caparra che permetteva all'uomo peccatore (cioè a tutti) di costruire il suo piccolo tesoretto in cielo: una svolta verticale che prelude al cristianesimo medievale. Ma questi cambiamenti furono lenti, contraddittori e difficili da cogliere. Brown si concentra sull'Occidente latino perché è qui che l'impero a un certo punto collassa ed è qui che si possono cogliere meglio gli intrecci tra cristianesimo e ricchezza. Nell'impero romano il flusso principale della ricchezza era costituito dal rigido ed efficace sistema fiscale, applicato capillarmente nelle varie province. Mentre in Oriente questo sistema di drenaggio poteva favorire l'accumulo di grandi ricchezze da parte di 'uomini nuovi' come i funzionari a ciò preposti, in Occidente troviamo un tipo di ricchezza, come quella della grandi famiglie senatoriali romane descritte nella seconda parte del libro, che si fondava su complesse genealogie che trasmettevano al proprio interno gli enormi patrimoni accumulati nel tempo. Questo sistema resse fin quando resse il sistema di tassazione, che entrò progressivamente in crisi nella prima metà del V secolo. Fu allora che il rapporto tra cristianesimo e ricchezza entrò in una fase decisiva, che Brown disegna magistralmente ripercorrendo le carriere di quattro autori cruciali: Ambrogio, Agostino, Gerolamo e Paolino di Nola. È in questo periodo che entra in crisi una struttura secolare di potere che non era stata toccata dal cristianesimo. Ed è in questo periodo che emerge la centralità del ruolo svolto dalla mediocritas cristiana, e cioè da quel ceto medio che ne costituiva l'ossatura e che doveva decidere del suo successo. Il libro si fa ammirare, oltre che per lo stile inimitabile dell'autore, ben reso dal traduttore, anche per la sua attenzione a fonti non letterarie (archeologia, epigrafia, iconografia) che contribuiscono a creare quel senso di straniamento che Brown considera giustamente uno dei compiti prioritari dello storico: comprendere come questo mondo ci sia lontano, per metterne meglio in luce le interne dinamiche. Un grande libro, che aiuta anche a ripensare il problema dell'uso odierno, invisibile anonimo devastante, della ricchezza, da parte del turbocapitalismo finanziario. Giovanni Filoramo
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