Dentro questo romanzo in versi di Francesco Targhetta prende forma il ritratto di un'intera generazione la generazione di chi si aggira, oggi, intorno ai trent'anni osservata attraverso lo sguardo di uno studente dottorando in storia all'Università di Padova e le sue instabili relazioni con i coetanei, i colleghi, i coinquilini. La storia è, detto in breve, quella di un precario della ricerca: la fine del dottorato, le difficoltà con il professore che lo segue (e che al momento dell'assegno di ricerca gli preferirà Gloria, collega più scaltra), i tentativi di inserimento nel mondo della scuola per la via strettissima e labile delle supplenze. Il tutto giocato come in una sorta di romanzo di formazione, ma per così dire svuotato, imperfetto (del resto l'ipotesi di un «Bildungsroman veteromarxista» con un protagonista che prende coscienza, come nel Volponi citato da Targhetta, «dei torti eterni degli eterni padroni» si affacciava, ma parodicamente, proprio per uno dei personaggi della storia, Dario, coinquilino del protagonista, cui «è saltato il grillo/di trasferirsi in città»). In questo epos quotidiano gli appuntamenti per l'entrata in un'età realmente adulta, emancipata, si rivelano in ogni caso mancati, incompiuti: perché è di una sorta di incompleta emancipazione che parlano, in effetti, la «Padova topaia» fatta di appartamenti in comune con estranei e di «corredi/sbregati» e «cemento», o il lavoro col contagocce nella scuola, o appunto il fallimento nell'ambito del percorso universitario, che già si presentiva nell'inettitudine dell'io narrante ai riti del mondo accademico. La conseguenza è, anzitutto, il fluttuare dell'identità dell'io, in bilico tra «l'eccesso di vita dentro» e «l'aborto/spontaneo delle energie», tra una «frenesia» che potrebbe diventare «il nostro faro» e un anche più potente, in fondo, istinto di resa all'omologazione del presente, il «terrore dell'abulia» covata su «burroni di insicurezza». Il soggetto, perennemente in cerca di «un frammento/perduto che aiuti a ricomporti», sceglie o meglio si augura infine la fuga da sé: «evitare te stesso» è il miglior risultato che può dare una «lotta» che non può essere vinta («bisogna smettere di dribblare noi stessi», dice tuttavia altrove un altro compagno di strada del protagonista, Los, quasi a rivendicare un bisogno di opporsi, di lottare comunque, e finendo poi in effetti per scappare dall'Italia, andando a fare ricerca in Belgio). C'è insomma, nel romanzo di Targhetta, anzitutto un senso dell'Esistenza, più che un precisamente ideologico senso della Storia: su questa linea sta il ritorno costante di un tema come quello della
guerra, che è sì l'argomento centrale della tesi di dottorato dell'io narrante, e viene dunque sfruttato più volte (si veda il grande slargo su cui si avvia il capitolo VII, dedicato alle battaglie e ai luoghi della Grande Guerra, al Piave o al Tomba, «il cui nome rimbomba di buio/nelle lettere spedite alle madri» dai soldati); ma la guerra, a sua volta imperfetta e senza soluzioni, diventa soprattutto una metafora legata all'io narrante, la «guerra» che finisce con la consegna della tesi, o la guerra dei colloqui di lavoro, fino alla propria «livida stanza» che si fa «trincea», spazio di separazione dal mondo; e infine il corpo stesso dei protagonisti, segnati dallo scorrere insensato del tempo, «terreni
noi di battaglia, ossari,/vestigia». Alcuni lettori del romanzo hanno già ricordato, per questo ritorno del romanzo in versi, il modello di Pagliarani o di Ottieri. Ma quanto al senso di colpa e di non appartenenza storica dell'io, nonché di incapacità di lotta, qui Targhetta ha forse fatto tesoro soprattutto della lezione di Sereni, compreso certo suo parlato in presa diretta, e compresa la capacità di ironizzare e acclimatare certo nichilismo leopardiano, vedi il «discorso farabutto su/
linfinitavanitàdeltutto» che ricorda l'operaio buono e inerme che citava
A Silvia in un grande poemetto degli
Strumenti umani,
Una visita in fabbrica. E per certe uscite fra il popolare e il sentenzioso, dirette in primo luogo contro il golem del consumismo, accosterei a Sereni un altro lombardo, Raboni, e l'alto moralismo sprigionato dallo squallido orizzonte delle
Case della Vetra (come per «la scritta
affari/negli ipermercati» che «vuol dire sempre affari loro», dei "padroni", nel capitolo II). Non è comunque immediato, al di là di queste parentele e di qualche nome evocato nel libro vedi Gozzano il reperimento dei modelli di scrittura di Targhetta: il che dice di una voce già ben matura, e a testimoniarlo basterebbe un'occhiata più attenta alla duttilità del verso e all'uso smaliziato della rima. Quasi a esorcizzare, con la levità dei suoni, il grigio senso di sconfitta e l'appena accennato
cupio dissolvi del finale del libro, dove l'io attende di cancellarsi, svanendo anche lo stesso ricordo di un sé immobilizzato, inerte, quell'io catturato e ironicamente imprigionato nel titolo stesso del romanzo: «vedendo le scritte/
Saldi, a pois, sulle vetrine/delle bigiotterie [...] non si muove nessuno,/qua,/perciò veniamo bene/nelle fotografie». Massimo Natale