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Si può ancora considerare questo celebre libro di Gotta come la patetica storia di un bambino di 10 anni, apparentemente orfano, sballottato nel tragico caos della Grande Guerra? ammesso che ciò sia stato possibile in passato, l'operazione appare impossibile oggi. Infatti è rapidamente evidente che Giacomino Rasi vittima innocente lo è solo per breve tempo, dopo la perdita dei genitori sotto la slavina e il suo fortunoso salvataggio da parte di una ruvida famiglia di contrabbandieri valdostani, fino all'adozione da parte degli alpini del battaglione Aosta (all'incirca fino al cap 7), dopo di chè diviene un altro personaggio: il bambino ardimentoso, desideroso, prima di vedere la guerra e poi subito attivo in essa, in maniera singolare: gagliardo, sveglio, coraggioso, vieppiù patriottico, fino a diventare negli ultimi capitoli addirittura un piccolo ma astuto agente informativo nel territorio nemico, che sa fuggire dalla prigionia e tornare presso il comando dell'Ufficio Informazioni, in tempo per partecipare alla avanzata finale verso la vittoria. Il crescendo di Giacomino è costante e vorticoso, tanto che non ci si stupisce che, a guerra finita, gli venga conferita la medaglia d'oro. Nel complesso, il personaggio, ben lungi dall'ispirare tenerezza, appare esagerato e segnato dall' evidente intento di mobilitazione patriottica dell'autore. Il motivo, a pensarci bene, è semplice: Giacomino non è il bambino del 1915-18, ma il bambino del 1926, che ha già subito il processo di "mobilitazione mentale" dell'infanzia durante la guerra (quello di cui scrive Gibelli, per intenderci) e sta crescendo in un contesto vieppiù nazionalistico, in attesa di diventare un perfetto balilla, pienamente fascista. Il libro allora oggi può essere letto soltanto come un documento storico, con un occhio nè ingenuo, nè infantile.
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