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Pignolerie - Alberto Piancastelli - copertina
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Pignolerie

Descrizione


«Mi aspettavo qualcosina di più, son sincero».

Un critico pignolo all'inverosimile commenta le più note e scolasticizzate poesie italiane, e trova errori di calcolo, di misura, di chilometraggio, di logica, e poi errori di meteorologia, di tempi di percorrenza, di acustica, di assonometria, di parallasse e così via. E vorrebbe consigliare l'autore, se mai tornasse in vita, di aggiustare la sua poesia, perché se già è in parte valida, lo diventerebbe di più. Va detto che ci si appassiona a leggere queste meticolose e paradossali disamine, senza che il poeta, se è un grande poeta, ne resti scalfito o irriso. Casomai è il critico che, nella sua maniacalità, nella sua stringente incomprensione, diverte.
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Dettagli

2020
14 maggio 2020
160 p., Brossura
9788822904508

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Arturo
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Simpatico e originale. Si legge volentieri e ruba più di una risata. Consigliato!

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Voce della critica

Probabilmente ognuno di noi ha avuto un compagno di classe che metteva in discussione gli insegnamenti impartiti dalle nostre care maestre, facendo domande che noi stessi ci ponevamo, ma che non osavamo esternare. Ebbene, Pignolerie di Alberto Piancastelli (Quodlibet Edizioni, Compagnia Extra) dà voce proprio a questo compagno di classe irriverente. Ogni capitolo del libro analizza in modo certosino le classiche poesie della letteratura italiana che abbiamo imparato a memoria a scuola (Foscolo, Carducci, Leopardi e compagnia bella), scoprendovi una marea di incongruenze e assurdità. Esperto di fisica, diritto, zoologia e molto altro, il critico Piancastelli è ossessionato dalla misurazione di ogni dato (non a caso è architetto di professione). Egli tralascia del tutto l’apparato retorico e simbolico del testo poetico, che analizza alla lettera attingendo scrupolosamente da codici giuridici, carte geografiche e leggi fisiche. Procede passo per passo, elabora calcoli e ipotesi come uno scienziato che cerca di indagare un fenomeno naturale.

Per il nostro critico ciò che le poesie raccontano deve essere, se non proprio realmente accaduto, quantomeno verosimile: una poesia è valida nel momento in cui è credibile. Si scopre così che i componimenti più importanti del nostro canone letterario non superano questo test spietato. Prendiamo ad esempio la celebre In morte del fratello Giovanni (il quale in realtà non si chiamava neanche così): Foscolo scrive che un giorno sarà seduto sulla lapide del fratello, che è ormai cenere muto; dato che è morto da soli due anni non può trattarsi di decomposizione naturale, ma unicamente di cremazione. Questo significa che il fratello si trova in un’urna cineraria, ma le lapidi delle urne cinerarie sono poste in verticale, quindi come farà Foscolo a sedervisi? Piancastelli arriva a una conclusione inevitabile quanto esilarante:

‹‹Dovrà (…) sedersi perpendicolarmente alla parete, con la schiena parallela al suolo e il sedere poggiato sulla lapide di suo fratello. (…) É una posizione innaturale, molto difficile da assumere e mantenere senza un’imbragatura. É un assetto da acrobata, da alpinista, da uomo ragno. (…) Consideriamo poi che le urne cinerarie a forma di vaso sono 270 millimetri circa di altezza per 195 millimetri di diametro. Le lapidi sono di conseguenza piuttosto piccole, circa 35 centimetri di lato. Foscolo inevitabilmente poggerebbe il sedere anche su qualcuna delle lapidi vicine. Se io fossi parente di uno dei cremati a fianco e, andando al cimitero, trovassi uno che geme col culo poggiato sulla foto di mio suocero, di mio nonno o di mio zio, a buon diritto gli direi: ‹‹Scusi, ma lei non si vergogna, come si permette?›› (p. 16)

Il critico pignolo compie un movimento contrario rispetto allo spirito stesso della poesia che, come ci insegna Leopardi, è l’arte del vago. Con la sua indeterminatezza essa ci libera dal dato reale e rende inessenziale tutto quello che è oggetto delle nostre preoccupazioni quotidiane. Piancastelli ci riporta proprio a questa dimensione prosaica dell’esistenza: il sistematico fraintendimento del linguaggio poetico gli fa riscrivere totalmente ciò che la poesia racconta, ma in un modo scientificamente accettabile. L’opera poetica diventa così l’occasione per parlare di cose assolutamente inessenziali rispetto al suo significato “profondo”: la legislazione funeraria a partire da Dei sepolcri, il disappunto di una guardia notturna riguardo alla poeticità foscoliana della sera o il fastidio dei compagni di scompartimento di Carducci quando questi decide di contemplare i cipressi alti e schietti tra San Guido e Bolgheri, con tanto di finestrino aperto in pieno dicembre (‹‹Scusi Carducci, stiamo crepando dal freddo, le dispiace chiudere per favore?››).

Piancastelli riconduce la poesia nel seno della nostra vita reale, ne depotenzia il contenuto universale, ma la rende al tempo stesso più “nostra” e soprattutto più autentica, perché giocare così con la poesia non vuol dire altro che decretarne l’importanza. Pignolerie è un’operazione di vivificazione della letteratura che dovrebbe essere portata nelle scuole, ovvero il luogo in cui spesso e volentieri essa diventa “lettera morta”, vecchia cosa polverosa. Così come il nostro compagno di classe impertinente, il critico si pone nei confronti delle poesie in modo genuino, senza alcun timore reverenziale: basta notare le micidiali chiusure di ogni capitolo, che vanno da critiche devastanti (‹‹Forse se questa non la scriveva stavamo bene lo stesso.››) a concessioni fatte con aria di sufficienza nei confronti di giganti della letteratura come se fossero amici con aspirazioni letterarie (‹‹Si lascia leggere. Non m’è dispiaciuta.››). Il tutto in una lingua schietta che risente del romagnolo e rimanda ad una dimensione orale, tanto che nel leggere sembra quasi di sentire il critico che spiega con marcato accento bolognese agli amici del bar i motivi per cui certe cose proprio non si possono scrivere (né tantomeno leggere).

L’apparente leggerezza dell’operazione di Piancastelli cela in realtà diverse chiavi di lettura. Questo critico ottusamente pignolo sembra una caricatura di quei critici pedanti che si perdono in sottigliezze perché incapaci di cogliere il senso vero di un’opera; e in effetti, spesso il lavoro del critico si è distinto per le immani cantonate prese a causa della difficoltà di andare oltre il senso letterale, di uscire dall’alveo di ciò che è noto e ordinario. Al tempo stesso però questa puntigliosità estrema rappresenta una forma di integrità professionale, un monito ai presunti critici odierni che impazzano nel web e che di rigore ne hanno ben poco. Non crediate, mi reputo parte di questa fauna virtuale: in tutta sincerità, non sono mica sicuro di aver scritto fin qui soltanto cose esatte.

Recensione di Giacomo De Rinaldis

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