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La poesia romanda - Philippe Jaccottet - copertina
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2012
1 gennaio 2012
264 p., Brossura
9788882813291

Voce della critica

Il titolo, La poesia romanda, potrebbe creare un leggero senso di smarrimento. Ma al lettore basterà vedere i nomi indicati in copertina per rendersi conto che quello che gli viene proposto è un libro prezioso. L'autore della raccolta antologica è Philippe Jaccottet, tra i massimi rappresentanti della poesia francese contemporanea. Il curatore, Fabio Pusterla (che di Philippe Jaccottet è la voce in Italia), è uno dei maggiori poeti della sua generazione in lingua italiana (il giudizio, di tutta autorevolezza, è di Pier Vincenzo Mengaldo). Jaccottet tradotto dunque dal suo maggiore esegeta e traduttore e presentato qui nella veste non solo di poeta, ma anche ‒ soprattutto ‒ di mediatore, di "direttore di un'orchestra che lui stesso ha chiamato a raccolta" (Fabio Pusterla). Come si ricorda nella quarta di copertina, quello che Jaccottet ha composto in questo libro, più che un'antologia è infatti un "concerto di voci diversissime, eppure perfettamente intonate". Sarà prima opportuno soffermarsi su cosa si intenda per "poesia romanda" (poesia francese della Svizzera) e quali implicazioni abbia tale denominazione. La poesia, in Svizzera, si scrive infatti in almeno quattro lingue diverse. Tre di queste, il tedesco, il francese e l'italiano, sono quelle dei grandi paesi confinanti, ricchi di secolari e prestigiose tradizioni culturali. Accade così che quando un testo svizzero, scritto in una di queste lingue, viene presentato, emerga la questione se sia corretto parlarne come di una realtà culturale autonoma, in qualche misura distinta dalla letteratura (francese, tedesca o italiana) o se invece ipotizzare tale autonomia non possa che risultare deviante. Il problema viene posto nel libro ‒ con equilibrio e ricchezza di rimandi a questioni identitarie complesse ‒ sia nella breve postfazione di Jaccottet che, in modo più esteso, nella prefazione di Pusterla. Pusterla, anticipando dunque e approfondendo alcune delle posizioni di Jaccottet, osserva che, se pur è possibile, per la poesia romanda, "identificare e sottolineare alcuni tratti comuni, uno sfondo di cultura e di storia che non può non aver esercitato qualche influenza su chi dentro quello sfondo si è formato", sarebbe tuttavia "assurdo e pericoloso credere di poter isolare la scrittura romanda dal grande fiume francese" e ribadisce che la "maggiore o minore altezza delle opere artistiche non può mai darsi al di fuori di un dialogo e di un confronto con l'insieme delle opere e della tradizione che il linguaggio di quell'arte, nel caso specifico il francese, ha visto nascere in sé". Si tratta di una posizione che non può non essere condivisa e che delinea con esemplare chiarezza i termini del rapporto tra due letterature, romanda e francese, scritte nella stessa lingua in paesi diversi. Jaccottet, a sua volta, dopo aver affermato di non avere "mai fino in fondo creduto all'esistenza di una 'letteratura romanda' realmente autonoma", riconosce tuttavia che tra la maggior parte dei poeti romandi circola un'"aria di famiglia", i cui caratteri più visibili sono "una certa 'seriosità', e dunque un difetto di fantasia, di senso ludico; un certo gusto per la 'buona fattura' (…) , un grande senso della 'misura'". Inoltre, un "gusto più marcato per la natura che per la società". A queste caratteristiche aggiungerà, commentando uno dei poeti selezionati, Jean Cuttat, la rarità di "ingegnosità" e di "facilità". Ma, in particolare, come elemento che inficia una possibile, ipotizzabile autonomia della letteratura romanda, Jaccottet solleva il problema della lingua comune: "E soprattutto: il francese non è stato la nostra lingua materna, la nostra lingua nativa, la lingua che ci ha cresciuti? Ebbene, è la lingua che in primo luogo abita uno scrittore". Proprio per quanto riguarda la lingua, la situazione nei cantoni germanofoni, pochi chilometri più in là, è molto diversa. Esiste, innanzitutto il problema della diglossia (nei cantoni della Svizzera tedesca si scrive in tedesco ‒ la "lingua muta" ‒ ma si parla in dialetto). Diceva Friedrich Dürrenmatt: "Io devo abbandonare continuamente la lingua che parlo per trovare una lingua che non so parlare". Ma, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale, nei confronti della Germania, della grande madre culturale, si è creata una frattura profonda, distacco, sgomento. Commenta Max Frisch: "Se persone che parlano la mia stessa lingua e amano la stessa musica che amo io non sono in nessun modo al sicuro di fronte alla possibilità di diventare esseri inumani, chi mi dà la certezza che io ne sia preservato?". Questi problemi che rimandano alla difficoltà di arrivare a un quadro d'insieme per quanto riguarda la letteratura prodotta in Svizzera e che spiegano quella che Pusterla definisce la "tentazione autarchica" della letteratura svizzero-tedesca, non toccano però la letteratura romanda né questo libro, il cui fascino è tutto nella bellezza, nell'intensità e nella straordinaria armonia dell'insieme: "Questa è un'antologia bella da leggere, ricca di voci diverse eppure orientata attorno a un centro invisibile, a un perno che crea una forma di armonia; ed è difficile non intuire che un simile nucleo armonico riconduce appunto alla finezza del curatore, del suo orecchio musicale" (Pusterla). I diciassette poeti rappresentati hanno, per motivi cronologici e di scelte tematiche e formali, voci molto diverse l'una dall'altra. Ma due raggruppamenti si possono individuare. Quello dei maledetti, della "diversità e della colpa" (la virgolettatura è di Jaccottet), che colpiscono per la radicalità della loro sofferenza: Pierre-Louis Matthey, "serpente fiero e aggressivo", dalla "forza visionaria" e dalla "stupefacente originalità metaforica", Edmond-Henri Crisinel, "voce lancinante e cristallina", morto suicida. E lo straordinario Gustav Roud (insieme a Ungaretti ispiratore e nume tutelare di Jaccottet), la cui prosa poetica Diversità contiene alcune delle pagine di più alta, crudele e lancinante tensione poetica della raccolta. Penso alle immagini delle costellazioni trasformate in "muta acutissima (…) che si accanisce a trafiggere una preda ormai priva di forze". Alle stelle trasformate in "aguzzini dai nomi meravigliosi senza tregua resuscitati (…) lo spiedo, la lancia, la mazza, tutte le antiche armi abbandonate per un'unica arma: un sibilo di pallide frecce silenziose in mezzo al cuore". E i poeti della levità, dei "minuti segnali che aiutano a vivere", le cui parole sembrano "semplici tracce di uccelli nell'aria" (Anne Terrier). O, come Pierre Chappuis "che tesse con l'arte leggera e sottile di un ragno una tela fragile solo all'apparenza, in cui viene ad impigliarsi (…) la luce appena credibile e quasi impercettibile che sembra talora bastare a nutrirci ancora" (Jaccottet). Al di fuori di questa classificazione, ma in qualche modo al centro della raccolta, le poesie di Jaccottet stesso. Immagini della fragilità e della sofferenza umana e il persistere struggente di un'esile speranza ("Ho fatto provvista d'erba e d'acqua rapida, / mi sono tenuto leggero: / sprofonderà meno la barca"). Per non dire degli stupendi Pensieri sotto le nuvole, già noti al lettore italiano. Resta ancora un aspetto. I cappelli introduttivi di Jaccottet, che si segnalano per "libertà critica e precisione interpretativa eccezionale" (Pusterla), sono molto brevi. C'è un tema però che tutti li accomuna. Il rilievo che Jaccottet dà al fatto che molti dei poeti (e alcuni di questi, osserva, sono tra i migliori) hanno provato il bisogno "di varcare le frontiere del loro paese natale", di abbandonare "il giardino forse troppo protetto della letteratura romanda". Il tema della fuga, dunque. Che, in questo caso, accomuna la poesia romanda a quella prodotta nell'area germanofona dove viene continuamente (forse fin troppo) rilevato il senso di ristrettezza (Paul Nizon), di una "limitatezza ossessiva e ossessionante" (Cesare Cases). In questo piccolo, silenzioso, complicato paesea pochi chilometri di distanza dalla terra di questi poeti, il problema si radicalizza (il motivo della fuga, è stato detto, percorre come una malattia mortale la letteratura prodotta nell'area svizzero-tedesca). Per i poeti romandi, di una malattia mortale certo non si può parlare. Segnala però un disagio, un'insofferenza per quella "misura" che alla Svizzera tanto spesso si invidia, ma di cui a volte, dall'interno, ci si vorrebbe liberare: "Così siamo fatti: un giorno meravigliati dai bei frutti della misura, un altro felici di vederla allargata, meno rigida e persino scombussolata" (Jaccottet). Di piccole fughe, sconfinamenti, "oltranze", anche in questo libro dunque si parla. Ma, andrà di nuovo ribadito, sono soprattutto l'armonia e la bellezza che catturano il lettore in questo concerto di voci, che ha trovato nel traduttore un interprete eccellente, capace di individuare ogni volta i giusti esiti timbrici e fonici e di far risuonare anche per il lettore italiano, con grande incanto, la musica dell'orchestra che Jaccottet ha chiamato a raccolta. Annarosa Zweifel Azzone

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Conosci l'autore

Philippe Jaccottet

1925, Moudon

Philippe Jaccottet è stato un poeta e prosatore svizzero. Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie (L’effraie et autres poésies), cui sono seguite Poesie (Poésie 1946-1967, 1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (A la lumière d’hiver, 1994), E tuttavia (Et, néanmoins, 2001). Secondo J. «tutta l’attività poetica è votata a conciliare, o anche solo accostare, il limite e l’illimitato, il chiaro e l’oscuro, il soffio e la forma»; ne consegue, nei suoi versi, semplicità, dolcezza di...

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