Troppo tardi, vien fatto di pensare, ammirando il pulito frontespizio delle Poesie di Renzo Gherardini, pubblicate dalla casa editrice Le Lettere per l'eccellente cura di Paolo Zoboli. Troppo tardi: perché Gherardini, nato nel 1923 a Firenze, ha scritto e pubblicato versi dal dopoguerra fino alla morte, avvenuta nel maggio 2011, ma non ha avuto in vita, come avrebbe dovuto, il giusto riconoscimento. Anche se di lui hanno scritto critici come Luigi Baldacci, Giorgio Luti e altri (tra i quali vanno ricordati Davide Puccini e Massimo Fanfani), e nonostante Sebastiano Timpanaro abbia introdotto da par suo la splendida versione delle Georgiche (Vallecchi, 1989), Gherardini è rimasto autore noto a pochi, e quasi relegato in una cerchia ristretta di lettori: uno di quei casi in cui la scelta esistenziale di star lontano dalla ribalta ha coinciso con quella artistica di una poesia tutta privata, quotidiana e domestica, estranea agli "ismi" e ai temi e traffici della cosiddetta "società letteraria", foss'anche quella nei cui dintorni un fiorentino della sua generazione non poteva non aggirarsi (le "Giubbe Rosse"). Eppure in questo densissimo volume, da lui stesso concepito e approvato prima della morte (informa Zoboli in calce all'Introduzione), un lettore non distratto dalle mode o dai "canoni" accademici o d'altro conio saprà riconoscere, con gratitudine, momenti memorabili e vibrazioni di lunga durata, come si conviene alla poesia di chi da sempre frequenta i classici; poemetti che nel loro caparbio sguardo alla natura, alle sue molteplici manifestazioni, polo magnetico e cangiante, inseguito nel tempo, dell'ispirazione, confermano l'osservazione di Timpanaro sul "modo virgiliano", specifico di Gherardini, "di vivere il rapporto tra l'uomo e la natura, quell'inserirsi dell'uomo in una trama di voci segrete che è qualcosa di diverso e più profondo dalla pura e semplice 'umanizzazione della natura' di cui spesso si parla a proposito delle Georgiche". Una natura iscritta, si può chiosare, in un orizzonte dedicato di ritorni e intime fedeltà, risonante di echi familiari: così nei Poemetti a Sezzate e in particolare in Un'antica casa (1983), che non ha nulla da invidiare al miglior Bertolucci o al grande e trascurato Valeri, oppure nel Dialogo nel silenzio (1998), che raccoglie i versi dedicati alla passerotta Ciò Ciò, compagna per quasi un decennio della famiglia del poeta. Accenti pascoliani, leopardiani e di più antichi maestri ricreano qui un mondo vivissimo, e tanto più toccante perché minacciato dagli uomini e in via di esser dimenticato, tranne che dal custode di vite minuscole e fraterne, dialoganti e irripetibili, "tra palmo e palmo / con tutto l'essere / in abbandono" (Una vita). Pietosa e vigile, solidale e sollecita verso il fremito creaturale e il suo estinguersi, la memoria imbastisce un trepido diario sentimentale, campito in ampie sequenze di annotazioni e pensieri fermati nelle ore del giorno (puntualmente riportate in calce a ogni suite), modulando il tema dell'assenza in un diluvio di sdrucciole sorretto da una trama metrica calibratissima. È questa, del resto, la maniera dell'ultimo Gherardini, affidata alle plaquettes stampate all'insegna del "Bisonte", contenenti alcuni dei suoi esiti più certi: Inverno in fiore, Al sommo dello stelo (2009), e gli altri titoli successivi al 1999, lungo un decennio colmo di poesia. Tellurica e insieme aerea, elegiaca e quasi "cinese" nel cogliere l'attimo che travalica il tempo, trasparente e domestica come sempre, eppure a suo modo "michelangiolesca" nel trapasso dal trepido all'intrepido, all'ombra della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo e in questo prossima al Betocchi degli ultimi libri: tale è la scrittura di Gherardini nel suo stile tardo. Aspettiamo dunque che dopo questa meritoria raccolta essa torni a sorprenderci, in un libro ulteriore e non meno necessario di questo. Luca Lenzini
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