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Il giorno 4 di giugno del 1972 abbandonava la Russia, con una piccola edizione delle poesie di John Donne in tasca e quasi nient’altro, il poeta Iosif Brodskij. La prima persona che Brodskij cercò in Occidente fu W.H. Auden. Su un prato del villaggio austriaco di Kirchstetten, il delfino dell’Achmatova e l’anziano poeta inglese, troppo chiaro per essere capito dai suoi contemporanei, si intesero in una communicatio idiomatum che non si sarebbe più interrotta, come testimonia la mirabile orazione funebre pronunciata da Brodskij nel decennale della morte del poeta: scritta in inglese, «per compiacere un’ombra». Da quel giorno Iosif Brodskij è diventato anche Joseph Brodsky, residente a New York ma di ascendenza tutta pietroburghese, se non vi è luogo come Pietroburgo «dove i pensieri si distacchino altrettanto volentieri dalla realtà». Così, «è con l’emersione di San Pietroburgo che la letteratura russa è entrata nell’esistenza». Molti dei tratti stilistici peculiari di Brodskij sembrano derivati, per osmosi, dalla città: la disciplina dei colonnati illusionistici, la luce pallida e diffusa, «dove occhio e memoria operano con inusuale acuità», l’onnipresenza dell’acqua, questa «forma addensata del Tempo», il soffio di vento saturo di alghe. In questo microclima alessandrino, dove l’Europa venne a riflettersi in uno specchio gigantesco, si è compiuta una prodigiosa eruzione di letteratura moderna, da Puškin a Mandel’štam, nel segno di un classicismo allucinatorio. E oggi quel luogo, che è un linguaggio, continua a vivere proprio in Brodskij, nelle schegge delle sue immagini, nei suoi metri sapienti, magari celati da una temeraria sprezzatura. In questo volume sono state raccolte, in accordo con l’autore, poesie degli anni 1972-1985, anni di un esilio che preesisteva alla partenza e al tempo stesso non sarà mai, perché Brodskij ha la sua patria nella lingua russa. Così ci accorgiamo di leggere i suoi versi, dopo Mandel’štam, la Cvetaeva, l’Achmatova, come parte di un’unica storia.
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Un'affermazione di poesia, paragonata alla farfalla... Così la penna va sopra la carta liscia di un quaderno, e non sa come finisce ogni sua riga, dove si mescolano saggezza ed idiozia ma si fida dei moti della mano, nelle cui dita batte la parola del tutto muta, senza togliere polline dai fiori, ma facendo più lieve il cuore. (Iosif Brodskij, "Farfalla", XI, in Id., "Poesie", a cura di G. Buttafava, Adelphi, 1998 [1986], p. 37)
Recensioni
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(scheda pubblicata per l'edizione del 1986)
scheda di Rastello, L., L'Indice 1986, n. 7
"Pietroburgo è la quarta dimensione, segnata nelle carte geografiche solo con un punto; questo punto è il luogo di tangenza della sfera dell'essere con la superficie del globo e con quella dell'immenso cosmo astrale; questo punto e capace di sbatterti addosso in un batter d'occhio un abitante della quarta dimensione, dal quale non ti salverà nemmeno la barriera di un muro..." (Belyj). L'abitante della quarta dimensione, Brodskij, irrimediabilmente infetto dal morbo pietroburghese, nel 1972 attraverso il confine dell'impero per giungere in occidente portando con se, per riconoscerla nella laguna veneziana, nell'aria di New York, nell'inquietudine per i fatti d'Afghanistan, la città emersa dal nulla e madre della letteratura russa, "dove occhio e memoria operano con inusuale acuità", trasformata in lucidità analitica, ricordo doloroso, versi dal metro ora compatto ed armonioso, ora agitato dalla ferocia del contenuto. Nella raccolta (si va dal 1972 al 1985) al tema dell'esilio si alternano motivi mistici, quadri del nuovo impero ed il confronto con la letteratura occidentale, in una varietà di registri linguistici che va dal tono neutro ma teso con cui è affrontato il dramma afghano al linguaggio degli ultimi anni, a detta del curatore Buttafava: "imbevuto di idiotismi, (...) fino a certo 'turpiloquio' febbrile, a modi di dire popolareschi violentati e ricomposti in metafore talora misteriose".
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