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«Occorre rovesciare, per Nappo, l’immagine heideggeriana secondo cui l’uomo è “in cammino verso il linguaggio”, per chiedersi piuttosto: verso chi e verso che cosa è in cammino la lingua? A condizione di precisare subito che il viaggio che la lingua compie è qui oltretombale, che la lingua della poesia di Nappo è, secondo il denso dogma pascoliano, una lingua morta. Da quando Pascoli quasi sbadatamente stilò, nei Pensieri scolastici, il suo implacabile referto, la grande stagione della poesia italiana del ’900, da Montale a Penna e a Caproni, ha fatto dimenticare ai critici la sua pertinenza. Ma i pochi lucidi poeti della generazione di Nappo (ne fa fede la lingua “smanta” e “secca” di De Signoribus) sanno che quella stagione non garantisce più per la loro lingua, che essi devono nuovamente misurarsi con la morte della lingua. Nelle lamelle auree trovate nei tympanoi orfici, il morto implora ostinatamente: “Dipsai d’eim’ayos, brucio di sete, datemi da bere l’acqua gelida che viene dal lago di Mnemosyne”. Le poesie di Nappo sono le lamelle orfiche deposte sulla lingua morta della poesia, che l’accompagnano nel suo viaggio al di là dell’umano (ma non verso Dio, da cui piuttosto proviene). Lingua interrotta e spettrale, assetata di memoria, che sembra tuttavia continuamente dimenticare ciò che rammenta (come il “ricordo che non ricorda nulla” in Campana). Per questo gli stupendi inserti dialettali (Galactotrofùsa, ’E nomme, ’A chianca ’e cavallo) non sono l’insorgenza di qualcosa di vivo in un contesto sepolcrale, ma l’urgere nella lingua morta di un idioma ancora più spettrale, reliquiario infinitamente e memorabilmente remoto.
L’indecidibile di celebrazione e lamento che ne risulta lascia un campo di rovine dove spunta qualcosa come il torso orfico della poesia, il prologo epilogale di una nuova lingua poetica, se è vero che la poesia italiana non potrà continuare a rodere ancora a lungo l’amara scorza elegiaca della “felicità negata”». – Giorgio Agamben
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