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Il poeta goriziano affronta una pluralità di tematiche in maniera filosofica è molto erudita. Tali tematiche spaziano dalle riflessioni sull’amore giovanile e non corrisposto verso una fanciulla, fino ai cupi e incalzanti pensieri sulla morte, il tutto legato dal contrastante sentimento che lo scrittore prova con la natura che lo circonda. È inoltre possibile rintracciare nelle sue poesie influenze petrarchesche e leopardiane. Una raccolta poetica molto dotta.
Sia nelle prime prove in poesia che in quelle più tarde e sicure non sfuggono la freschezza, la visione e l'imperativo assoluto della sua ricerca.
Anime troppo grandi per questi arrugginiti cancelli che apre la vita, anime troppo vaste per queste sale ariose e magnifiche dove i soffi del divino invadono le narici. Ma quando il cuore sente più di quanto non sappia la vita diventa lascito di zavorre, incarico di poesia, bava immortale. Carlo era il persuaso, il vegliardo, il canto e il dono di un alito di crisalide già pronta al volo che nessun'altra parola è degna di eguagliare "Oh caminetto antico quanto è triste/ che nella nera bocca tua/ rimanga la legna che non arde e par che pianga/ di desiderio...". Il cielo della carenza avrà orizzonti sempre scivolosi, ma esistono sguardi che sono già destini, forse impastati da Dio, forse da nature lontane. Carlo era di questa fatta, aveva in sé la dolorosa luce che solo una calda angoscia può coltivare. Qualcosa non basta, i fiammiferi son troppo corti, arrivano i moscerini del nonsenso a divorare un'anima enorme come le costole del creato: "E risponde dall'anima mia triste/ un bisogno amaro di carezze:/ forza incosciente a fiaccola fumosa". Una lingua antica, musica curatissima, studio calato come pochi nel grumo di un sentimento lavorato, arnese che sapeva benissimo quali mani lo toccavano, lasciandosi cullare. Ma non basta nulla dove anche le parole diventano scogli di impotenza sovrana, le dita di un Leopardi ancora più ragazzo si torcono nel grumo di sogni insoddisfatti, speme incrinata, offesa, dove "nè più mi giova mendicare giorni".
Recensioni
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MICHELSTAEDTER, CARLO, Poesie, Adelphi, 1987
scheda di Carbone, R., L'Indice 1988, n. 2
La riproposta, per opera di Sergio Campailla, delle poesie di Michelstaedter (già apparse, per la cura dello stesso, nel 1974) avviene in un periodo di mutato interesse nei confronti dello scrittore goriziano. Certo, il fascino della Mitteleuropa sembra ormai essersi un po' esaurito per le continue incursioni editoriali effettuate negli ultimi anni in tale area di produzione; ma per Michelstaedter l'argomento non vale. Ne sono prova queste poesie, scritte fra il 1905 e il 1910, che comprendono sia prove decisamente giovanili (o addirittura adolescenziali), sia testi di maggior forza, da collocare in prossimità con quanto viene espresso concettualmente ne "La persuasione e la retorica". Ed è proprio il legame fra poesia e filosofia a costituire forse la chiave di lettura più adeguata per questi versi, che sembrano sempre privilegiare (anche sul piano dello stile) l''exemplum' leopardiano, indispensabile a Michelstaedter (e a molti altri, certo) per tentare una poesia connotata da un punto di vi sta riflessivo e apertamente filosofico. Dopo verrà Heidegger a parlarci di "poesia pensante". E di "pensiero poetante", naturalmente.
MICHELSTAEDTER, CARLO, Poesie, Adelphi, 1987
CERRUTI, MARCO, Carlo Michelstaedter, Mursia, 1987
recensione di Muzzioli, F., L'Indice 1988, n. 5
Con l'occasione dell'anniversario della nascita, l'opera di Michelstaedter è tornata a interessare il dibattito filosofico e letterario, chiamando in campo interpreti vecchi e nuovi. E il compito degli interpreti non è facile, perché si tratta di un'opera veramente singolare e unica nel panorama nel primo Novecento italiano; un'opera che va affrontata in tutti i suoi risvolti e nelle diverse tecniche di scrittura: dal discorso filosofico mosso e variegato della originalissima tesi di laurea sui concetti di "persuasione" e "rettorica" in Platone e Aristotele (argomento dilatato ad affrontare i problemi generali della vita umana, nella serrata lotta tra coscienza e illusione), alla forma del dialogo, alle poesie, fino ai brani epistolari; e non si dimentichi il versante del segno figurativo. Un'opera di autore 'straniero' come era allora il goriziano Carlo Michelstaedter studente a Firenze: un'opera maturata di slancio in quel fatidico biennio 1909-10, e interrotta dalla dimissione del suicidio. Questo 'exitus' tragico ha pesato e pesa ancora sulle interpretazioni di Michelstaedter; tra mille supposizioni e qualche pettegolezzo, sembra normale che l'opera sia piegata a fornire una spiegazione del suicidio, slittando, insomma, verso le sabbie mobili della biografia - dove malgrado le migliori intenzioni, un giudizio critico equilibrato (intendo dire salvo dalla patetica partecipazione) diventa estremamente improbabile.
La ripresa del dibattito su Michelstaedter (ora rinvigorito dai contributi del convegno svoltosi a Gorizia nello scorso ottobre) si può giovare anche di due importanti ritorni editoriali: da un lato, l'editrice Adelphi procede, con le "Poesie", di un altro passo nella stampa delle "Opere" (il testo è curato da Sergio Campailla, e segue, con pochi aggiustamenti, l'edizione Pàtron del 1974, ormai da tempo esaurita); dall'altro torna disponibile, in veste aggiornata e con una accuratissima bibliografia, lo studio scritto da Marco Cerruti per i "profili" di Mursia, una delle prime monografie (era uscita nel 1967), rimasta poi un punto di riferimento ineludibile per i critici successivi, soprattutto per quelli interessati a una interpretazione 'progressista'.
In un momento in cui, nella critica su Michelstaedter, il punto di vista filosofico è prevalente, e forse prevaricante - sull'onda dei misticismi di moda - l'edizione delle "Poesie" è venuta quanto mai opportuna. Ma la presentazione del volume non va in direzione, purtroppo, del rilancio della prospettiva letteraria: al contrario Campailla mette subito l'accento sulla destinazione privata dei testi poetici, derivandone un pregiudizio di inadeguatezza per il "metro di valutazione letteraria". Al critico non resterebbe che sostare sul limite del "segreto" personale dell'autore, da un lato riconducendo il linguaggio (anche quello fortemente istituzionalizzato della poesia) all'esperienza esistenziale, dall'altro reagendo con simpatico impressionismo alla "vibrazione lirica" del testo. Non a caso la lettura di Campailla privilegia la struttura musicale (parla spesso in termini di "orchestrazione", "sinfonia", "refrain" e simili), a scapito della semantica e soprattutto della sostanza concettuale. Così, lo sforzo michelstaedteriano di rinnovare la materia verbale attraverso una sintassi poetica che evidenzi le sfumature dei significati (magari, come ne "Il canto della crisalidi", ribaltando il significato di parole-chiave, come "vita" e "morte"); bene, tutto questo lavoro di critica del linguaggio è inteso, nel saggio introduttivo di Campailla, piuttosto sul piano stilistico dell'effetto di indeterminatezza: "cadenza" titanica e profetismo "sibillino".
Ora, se queste poesie fossero davvero un documento semiprivato, avvolto da "silenzi" ed avviato verso la decisione della "Morte-per-essere" (formula finale in cui Campailla conduce a capriolare l'heideggeriano Essere-per-la-morte), non si capirebbe perché il linguaggio non sia quello diretto dell'effusione personale o della confidenza familiare: perché o per chi, dobbiamo chiederci, la poesia dice 'altro', ossia traspone negli elementi naturali i termini della lotta interiore? Su questo punto, cioè sul problema del simbolo, intervengono sia Campailla che Cerruti, ma da posizioni diverse: il ricorso al simbolo è, nella lettura di Campailla, il rimando al potere suggestivo di una stonatura emotiva che rende la significazione oscura e contraddittoria, effetto dell'ossessione psichica (è significativo che l'accenno a una "lettura psicoanalitica", nella precedente edizione affacciato in nota, venga adesso promosso nel corpo del testo introduttivo). Per Cerruti, invece, il simbolo michelstaedteriano deve prima di tutto essere rapportato alla pratica storica del simbolismo, rispetto alla quale il goriziano va nettamente distinto: il suo simbolismo non solo "è alieno da ogni compiacimento estetizzante", ma si connota per una "qualità, per così dire, piuttosto oggettiva", poiché intende "rivelare, appunto attraverso simboli, il dato conoscitivo-esistenziale altrimenti incomunicabile". Mettendo bene in vista gli aspetti conoscitivi e comunicativi, Cerruti indica una strada che potrebbe essere seguita fino a un cambio di cavallo terminologico, sostituendo alla nozione di simbolo quella di allegoria che, forse, è ancora più appropriata alla poesia filosofica di Michelstaedter.
A una interpretazione in chiave allegorica si potrebbe obiettare che, negli ultimi componimenti, la persona riaffiora dietro tutte le figurazioni e le proiezioni. Ma anche lì, sia pure per constatare il proprio scacco irrimediabile, è ancora l'imperativo etico della "persuasione" che solleva il mondo della vita sul piano 'altro' del linguaggio riflessivo dell'esame di coscienza. E che la "persuasione" si esplichi sempre in una "intenzione comunicativa" è la convinzione più resistente, a mio giudizio, che percorre lo studio ricostruttivo di Cerruti.
Oggi, di fronte alla tendenza dilagante degli interpreti che esaltano il misticismo - 'greco' o 'ebraico' che sia - di Michelstaedter mettendo in ombra la sua fondamentale dimensione etica, è utile ritrovare nel discorso critico di Cerruti il richiamo testuale alle pagine de "La persuasione e la rettorica" sul dovere verso la giustizia. La "persuasione" è dunque un dover essere, ovvero un agire comunicativo rivolto all'emancipazione? Bisogna rispondere affermativamente, e la tesi dello studente goriziano è esplicita in proposito, ma subito aggiungere che le cose sono più complesse: lo stesso Cerruti ha scritto chiaramente che accanto a questa "via" tendente con "solidale procedere" al riconoscimento dei "persuasi" in una nuova collettività, sta un'idea di "persuasione" come autofondazione solitaria e immediata; all'interno dell'opera, e soprattutto nei frammenti sparsi, il bivio tra le due soluzioni diviene una 'impasse' lucidamente sofferta. Del resto, non bisogna dimenticare che stiamo parlando di un autore giovanissimo, in un periodo vulcanico e denso di tensioni come gli anni primi del Novecento.
Comprendere la complessità di Michelstaedter non vuol soltanto tener conto di tutte le componenti culturali; e magari affiancare allo "spessore religioso" (Campailla sottolinea ora anche il "tema dell'utilissimo giudaico") l'influenza di materialisti come Lucrezio e Leopardi: vuol dire soprattutto riconoscere le stratificazioni del pensiero e le discrepanze tra i diversi ambiti dell'opera. Per questa direzione di ricerca, la rilettura libro di Cerruti offre preziose indicazioni: come quando mostra la maggiore problematicità di alcuni appunti sparsi rispetto alle pagine promulgative della tesi di laurea, e nota che "così inquiete considerazioni non sarebbero tuttavia entrate a far parte dell'opera maggiore"; e quando vede nei testi poetici non un ripiegamento sentimentale ma una eticità ancora più forte perché concretizzata nel linguaggio: "l'impegno conoscitivo esigendo di tradursi in apertura verso gli altri, in un 'conoscere insieme', la poesia si offre come il luogo concreto di questa germinale esperienza comunitaria".
Ma ritengo che l"'attendibilità" con ragione rivendicata da Cerruti per il suo "profilo" michelstaedreriano, stia essenzialmente nel metodo: Michelstaedter viene letto nel suo tempo (con particolare attenzione all'ambiente culturale e letterario e alle diverse fasi della 'formazione' dello scrittore), e ciò contrasta con l'attuazione forzata e fuorviante di molti interpreti odierni.
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