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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2016
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Non mi è piaciuto. Mi sono annoiata. Alcuni spunti interessanti, ma forse la traduzione un po' contorta, di tanto in tanto alcuni refusi, e molte ripetizioni (volute o meno non saprei) il dilungarsi troppo insistente su riflessioni davvero troppo insignificanti, da cui non viene tratto altro che il loro "non peso", lo rendono un libro di cui si può fare a meno. A differenza di Walser - giustamente menzionato da Alida Airaghi - di cui ricordo con affetto la leggerezza e un senso di purezza, di "sé" distillato e reso autenticamente poetico, questo di Handke risulta un testo pesante, dispersivo, impreciso. Si potrebbe obiettare che l'imprecisione è intenzionale, accostabile alla vaghezza del flusso di pensieri dello scrittore protagonista. Ma a mio avviso l'"immediatezza" in letteratura o è estremamente precisa oppure risulta vacua. Ho fatto - leggendo queste pagine - anche il paragone con "Paesaggi con figure assenti" di Philippe Jaccottet, che considero un capolavoro. E che rileggerò presto per l'ennesima volta.
Nell'87 Peter Handke pubblicò questo testo che ricorda nel tema quello dello svizzero R.Walser ("La passeggiata", 1917). Due scrittori in cammino, che raccontano il loro vagare solitario, immerso in pensieri e visioni, tra sporadici incontri, e imbarazzati, con i loro simili, e una difficile adesione al pulsare della vita dei più. "Perché sentiva una partecipazione così pura soltanto quando era solo? Perché poteva capire quelli che gli stavano vicino soltanto quando se n'erano andati, e quanto più erano lontani, tanto meglio?"; "quando io, da quanti anni ormai?, mi sono isolato e mi sono messo in disparte per scrivere, ho confessato la mia sconfitta come individuo sociale; mi sono escluso dagli altri per tutta la vita". Lo scrittore narrato in terza persona da Handke è evidentemente un alter ego, amato e detestato, che ha fatto dello scrivere la ragione e il perno della sua intera esistenza, sacrificandola non tanto alla fama e al successo letterario, ma piuttosto alla ricerca di un modo per salvarsi dalla mediocrità e dalla falsità dei ruoli sociali. Se si obbliga ad uscire dalla sua stanza, a camminare per le strade del centro, o in periferia, o in montagna, lo fa con disagio, temendo sia di essere riconosciuto sia di essere ignorato, fuggendo da voci e rumori, oppure implorandoli e avvinghiandosi ad essi come all'unica traccia vitale nelle sue ore silenziose. Fuori di sé, gli fa compagnia la prima neve, il mendicante folle che urla la sua rabbia nel traffico, i fiori che resistono all'inverno, qualche timida conversazione in un'osteria: tornato alla sua solitudine, sono solo i tasti della macchina da scrivere, o l'annunciatore della radio, o il rubinetto che gocciola a scandirgli il tempo da vivere. "Non era strano che quasi soltanto i momenti in cui scriveva potessero dilatare a tal punto il luogo in cui risiedeva? Allora ciò che era piccolo diventava grande; i nomi non contavano più..."
alcuni punti mi son poco chiari, però la storia in se è molto bella
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