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Umberto Eco, l'anno scorso, in un suo romanzo il cui protagonista alternava lucidità e nebbie alla ricerca della propria infanzia, ricordava i fumetti e i giochi della propria infanzia, trascorsa sotto il fascismo. Non è un caso se Antonio Gibelli, interrogandosi sul rapporto fra gioventù e militarizzazione fra Italia liberale e ventennio, riporta in exergo proprio un brano del noto semiologo-scrittore e del suo La misteriosa fiamma della regina Loana (per gli appassionati, il titolo di un album nerbiniano). A giudizio di Gibelli, infatti, la militarizzazione della gioventù italiana che poi avrebbe combattuto sui vari fronti della guerra fascista, e che avrebbe "fatto" la Repubblica, era fortemente imbevuta di una "cultura della guerra", respirata e assorbita da una quantità di messaggi diffusi a piene mani da tutti i media del tempo.
Come si vede, la questione è tanto importante quanto complessa e irta di problemi. Il merito di Gibelli è di averla messa al centro del primo volume di sintesi sull'argomento, basato peraltro su una personale reinterpretazione che investe la continuità di temi dalla Grande guerra al fascismo, e per molti versi sino alla seconda guerra mondiale (in realtà Gibelli si spinge ancora avanti, sino alla guerra civile 1943-45 e alla Resistenza).
I problemi, come si diceva, sono vari. Dove iniziano e dove finiscono, reciprocamente, infanzia, adolescenza, e gioventù, nel periodo preso in esame? Si può parlare di vere e proprie politiche per la gioventù (per adesso, diciamo genericamente intesa) da parte dell'Italia liberale - e per questa allo stesso modo nel fuoco della guerra mondiale e nei suoi anni di pace - non diversamente da come se ne parla per il fascismo? In quale misura lo studio della pubblicistica per i giovani (il messaggio) ci parla dei pensieri dei giovani stessi (i riceventi)? Le considerazioni che valgono per i giovani maschi valgono anche per le giovani donne? Esiste, cioè, una specificità di genere? E quali sono, per il fascismo, i tratti distintivi di questa sua politica rispetto alle analoghe - ma diverse - "culture della guerra" per un verso del nazismo e per un altro delle potenze liberali europee?
Gibelli è consapevole di tutte queste difficoltà e ci indica nel suo bel volume una personale traccia da seguire. Fittamente documentate con ampie e frequenti citazioni, le sue pagine risultano per molti versi affascinanti, basate, come sono, su una pluralità di fonti: i manuali scolastici, le letture per l'infanzia, la cartellonistica, la pubblicità, i giochi e i giocattoli ecc. A ciò si aggiunga che l'autore sonda la ricezione dei messaggi della propaganda da parte dei giovani italiani in fonti che gli sono da tempo congeniali: la diaristica popolare, l'epistolografia, la memorialistica. In tali sondaggi Gibelli vede una grande continuità. In particolare, è la sua tesi, sarebbe stato il primo conflitto mondiale a far irrompere nell'immaginario infantile e giovanile una "cultura di guerra" che, concentricamente moltiplicata dal fascismo (qui presentato nei suoi tratti più moderni e "multimediali" di sapiente organizzatore dell'opinione pubblica), finisce per far presa sui giovani italiani.
Questo di Gibelli non è uno studio dell'immaginario dei giovani, e del ruolo, o della parte, che in esso ebbe la guerra. È un ottimo studio di come (e quanto) la guerra si sia infiltrata nell'immaginario dei giovani italiani. "Tutta" la gran quantità di guerra presente in libri di testo e fumetti, giocattoli e pubblicità, parole e immagini, sostiene l'autore, fa comprendere come, anche in Italia, si fosse sedimentato un sostrato per alimentare la "barbarizzazione" della vita quotidiana e la violenza - su cui hanno già scritto rispettivamente George Mosse e Omer Bartov - che hanno caratterizzato l'Europa dei decenni successivi alla Grande guerra ed evidenti poi nella guerra di sterminio del secondo conflitto mondiale. Un sentire che, avverte Gibelli, non poteva non lambire persino la Resistenza: si vedano le sue ultime pagine sui "ragazzi di Salò e sui "piccoli partigiani".
Il libro si avvale di un'ampia letteratura storica sui singoli canali della complessa e multimediale comunicazione di massa: gli studi sulla scuola e sui libri di testo, quelli sull'iconografia del fascismo, quelli sulla stampa illustrata. Ma li fonde e li rinnova con la pluralità della documentazione e con la sua tesi di fondo sul duraturo peso della Grande guerra, che non stupisce chi ricorda i suoi libri precedenti: L'officina della guerra (Bollati Boringhieri, 1990) e La grande guerra degli italiani (Sansoni, 1998). Sia nel secondo che nel primo di questi due volumi, la nazionalizzazione delle classi subalterne era al centro dell'attenzione di Gibelli: adesso, con Il popolo bambino , vi ritorna, perché in fondo la militarizzazione al centro di queste pagine non ne sarebbe altro che un ulteriore tassello.
Gli studi che verranno non potranno non partire da questa visione così penetrante della cultura di guerra (e del consenso?), approfondendola e discutendola. La militarizzazione dell'immaginario non basta infatti per fare una nazione militare (gli esiti della guerra fascista lo dimostrano). Ma certo furono sufficienti a inquinare i sentimenti e le azioni di generazioni di italiani.
Nicola Labanca
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