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recensioni di Rognoni, F. L'Indice del 2000, n. 04
Nella tradizione di certo Conrad, certo Hemingway, o di Graham Greene o Le Carré, lo statunitense Robert Stone (è nato a Brooklyn nel 1937) scrive libri d'avventura, o meglio d'azione, per adulti. Dove non s'intenda, come d'un "film per adulti", la scabrosità: quanto il momento della scelta morale, che per Stone è sempre il cardine del romanzo - anche se si è nella giungla, o su un mare in tempesta, e attorno fischiano pallottole, o scoppiano le bombe. Insomma, un'ostinata volontà di introspezione e realismo psicologico, quasi inevitabilmente a scapito della spavalda leggerezza di tanti romanzi d'azione incosciente: che però spesso dà gratificazioni più responsabili, e più solide - se anche talvolta un po' grevi, perché così ponderate.
Questo è senz'altro vero del suo penultimo romanzo, ilmagnifico Outerbridge Reach (1992), storia d'una traversata del mondo in solitaria: dove Stone, senza alcun imbarazzo, allestisce almeno una scena che rivaleggia con le Encantadas di Melville, e un'altra che per intensità drammatica nulla ha da invidiare a quella del suicidio di Decoud nel Nostromo di Conrad. Ed è in effetti cominciando da Outerbridge Reach che, a mio giudizio, conveniva riproporre l'opera di Stone in Italia (un paio di suoi titoli figuravano anni fa nel catalogo della Sperling & Kupfer, decisamente fuori posto): da Outerbridge Reach o dal più antico, violento e appassionante Dog Soldiers (1973), un classico sulla guerra del Vietnam - da cui il notevole Guerrieri dell'Inferno (1978) di Karel Reisz, col giovane Nick Nolte nella parte d'un reduce di guerra coinvolto nel traffico di eroina.
Eroina e droghe varie fanno la loro parte anche in Porta di Damasco, dove certi stati di alterazione mentale - o vera illuminazione - si possono però raggiungere, se non proprio cadendo da cavallo, per vie comunque non solo chimiche. Non per nulla il romanzo è ambientato in Israele, dove, nonostante "seimila anni di sottili speculazioni e scettico umorismo", "un miracolo aveva più valore di un aforisma". Il che spiega la frotta di pellegrini più o meno invasati, nuovi e vecchi messia con tanto d'apostoli e battista al seguito, che regolarmente circolano per i luoghi sacri: è la cosiddetta "sindrome di Gerusalemme", su cui l'apparentemente disincantato Christopher Lucas, giornalista freelance d'origine mista (è il figlio naturale di "un ebreo non praticante" e di "una cattolica sentimentale") vorrebbe scrivere un libro. Niente di più rischioso per un ex-credente come lui, ancora troppo "tentato dalla fede": soprattutto se en route s'innamora della fascinosa cantante jazz e mezzosangue sufi Sonia Barnes (sì! Barnes come il Jake Barnes del Sole sorge ancora di Hemingway... è infatti anche Lucas è gran frequentatore di bar, e a letto ha i suoi problemi d'erezione...). Attorno, un cast affollatissimo: decine di personaggi, e che contano due o tre volte tanto, perché nessuno è mai solo quello che sembra, e se non sta facendo consapevolmente il doppio gioco, è solo perché viene manipolato.
Porta di Damasco è opera tanto coraggiosa e ambiziosa quanto probabilmente fallita nel suo complesso: se ne ammirano l'intenzione e (soprattutto a una seconda lettura... ma quanti finiranno la prima?) la precisione documentaria, la coreografia assai movimentata, l'intreccio inestricabile di politica e religione, l'ironia superiore; ma è tuttavia faticosa, verbosa, enfatica nei suoi crescendo, poi troppo ellittica, solo allusiva nel denouement. Una bomba preparata con tutti i crismi, ma che non scoppia, verrebbe da dire... e non dico di più, perché - a dispetto della serietà, e dell'ampiezza dei riferimenti, da Pound a Pascal, da T.S. Eliot a Simone Weil (fosse in Israele adesso, la Weil "[s]arebbe andata a vivere a Gaza, scandalizzando tutti") - il romanzo resta essenzialmente un thriller, e non vale rivelarne il finale, neanche in metafora.
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