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Dionisi guarda la forma umana di Roma vede e racconta. Ci costringe a vedere. La vista dunque è il senso proteso verso il mondo e l'organo con il quale Dionisi penetra la realtà che ci riguarda. Sono da sempre un guardone inguaribile/cronico, dichiara senza reticenze: ed enuncia così la malattia dell'anima che consente (forse) di capire. Niente quindi di lirico, dionisiaco o apollineo, romantico o intimistico, tanto meno retorico: corpi, incontri, grumi di realtà; movenze, atteggiamenti; la corporeità e ripetività dei gesti, delle pulsioni visibili, dei comportamenti sciorinati all'aperto, dei pensieri coatti traslati da tram e da metrò, una folla di situazioni, di storie senza un prima né un dopo. Il mondo, la materia umana del mondo, è lì davanti, tangibile e concreta, anche se la sua sostanza è un deserto, o forse meglio uno sterro di sentimenti e pensieri, uno show irrimediabile e globale. Sono creature ferite, a volte decelebrate, disumanate, quasi sempre inconsapevoli di esserlo. La città in frammenti, la realtà in frantumi, ci è restituita così dallo sguardo minimo e implacabile della lingua di Dionisi. Una lingua che sa: raffinata e illustre per ampie estensioni di versi e intere lasse, a lampi dotta, s'incarna nella materia del narrato e all'improvviso scende verso il basso di un lessico locale, di un gergo cataindotto, di cadenze da refezione scolastica o bar-sport, o da interviste tivù, o da cene nei trivi vip e club privé: scala discendente che in poesia, come in musica, vuol dire di discesa agli inferi.
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