Gli scritti occasionali firmati da Giovanni Nencioni "nell'arco di tutta la sua lunghissima vita di studi" non si limitano, come ci si aspetterebbe da chi fu illustre presidente dell'Accademia della Crusca, all'area linguistica e lessicologica. Come l'amico di gioventù Lopez de Oñate (cui è dedicato il contributo più impegnativo), anche Nencioni aveva interessi che toccavano "filosofia, storia, diritto e politica": anche per lui i libri erano "le tessere di un infinito mosaico da ricomporre" e a un tempo "le voci spente dalla sommaria insolenza della cultura incoronata". Il taglio spesso autobiografico di queste pagine, non a caso, riserva speciale attenzione al regime mussoliniano e lo esamina con pacato senso della storia, come occasione per rimeditare "sul valore dell'individuo e sui limiti della collettività, quale ci era presentata dal sociologismo fascista". Perché è proprio il rifiuto di ogni "opposizione manichea, esacerbata dalla intellettualità dei contendenti" il tratto caratteristico dello studioso: un appello non "aggressivo e vocifero", ma "tranquillo e operoso", alla "vera ragione", che "non si sottrae alla discussione, ma alla lite, e neppure alla storia, perché sa di essere lei stessa nel tempo". Nasce da questa radice anche l'altro tema fondamentale del Nencioni linguista, sviluppato ugualmente nelle prefazioni: "l'esclusiva dedizione alla cura e alle sorti della lingua nazionale" per ciò che è la sua "duplice e tenace vocazione", le "differenze" da un lato e l'"unità" dall'altro, secondo l'antico magistero dantesco. Ed è allora il ruolo ufficiale dell'Accademia a ispirare l'impegno civile e culturale del funzionario, rappresentante di una burocrazia intesa come "insostituibile funzione etica e costituzionale", "equa applicazione del diritto" e "aiuto al vivere dei cittadini". Rinaldo Rinaldi
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