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Nessuno sperimentalismo linguistico fine a se stesso (forse, qualche eco di un divertito Palazzeschi, di un epigrammatico Caproni, di un istrionesco Scialoja), ma sempre un esplicito intento comunicativo, che ambisce a un richiamo etico mai didascalico, e nemmeno pedantesco: semmai oscillante tra una rassegnata accettazione del reale e un utopistico inseguimento dell’ideale. L’osservazione di ciò che ci circonda, lo sguardo attento e disincantato sugli oggetti più banali della nostra quotidianità (sedie, maniglie, parcheggi, acqua dei rubinetti, armadi, tagliacarte…) rivelano al poeta ciò che è «Assurdo e ovvio / allo stesso tempo», davanti a cui si può esprimere solo meraviglia, stupore quasi fanciullesco, e divertita incredulità: «Il trucco sta nel farsi / colpire a effetto / sorpresa trasecolare per tutto / restare a bocca aperta con le mosche / che ci volano dentro esterrefatti / per la scoperta dell’acqua calda». Le cose, le persone, il linguaggio stesso che usiamo rivelano una misteriosa e quasi buffa inconsistenza, che ci lascia attoniti e immobili a chiederci ragione e fini del loro esistere. Se il poeta cammina «contromano per le strade / come su un nastro trasportatore / cammina un camminatore / dalla parte sbagliata del marciapiedi», lo fa in quanto avverte la falsità dei rapporti, la stupidità dei luoghi comuni, l’inessenzialità della parola quando diventa abusata, superflua. L’elenco dei modi di dire, svuotati di significato, ridicolmente sfruttati, è impietoso («non c’è più religione», «non ci sono più le morte / stagioni di una volta»), quanto la satira dei Poetry Slam e della poesia visiva. I tre disegni di Riccardo Sevieri che corredano il volume richiamano nella loro schematica essenzialità sia l’infantile sbigottimento dei versi di Socci, sia il loro beffardo interrogativo sulla precarietà di ciò che si spaccia per vero e reale: «Questa cosa che manca / che si inventa di sana pianta / non hai vinto ritenta / di riconoscerla da un’impronta».
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