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recensione di Perretta, V., L'Indice 1997, n. 8
Opera luminosa, dono, festa: espedienti salvifici, vie d'uscita dal labirinto delle fatali antinomie in cui l'autore avrebbe potuto far sperdere i suoi eroi; Rossana Rossanda, nell'impeccabile edizione veneziana del "Principe di Homburg", riprende questa lettura eufemizzante dell'opera e ne approfondisce il senso. Il dramma oscilla infatti tra "enigma e incanto"; è la storia di un'assenza e di uno stuporoso risveglio; la descrizione di una vera e propria crisi di panico, di una rivolta, del passaggio da adolescenza sognante a maturità responsabile, di continue cadute, di sconfinamenti dal reale e dal sogno; il tracciato di una critica al potere, al comando, alla lettera della legge; il racconto dell'apparente contraddittoria accettazione della norma e insieme l'espressione del desiderio come esso si manifesta in una personalità impastata di contrasti e difficilmente conciliabile con la vita nella sua forma quotidiana.
Rossana Rossanda analizza il dramma di Kleist a partire dalle interpretazioni precedenti e sottolinea come la vita pubblica del "Principe" sia stata tutt'altro che facile. Troppo aggrovigliata e troppo audace per piacere a tutti, la storia dell'eroe di Fehrbellin in versione "napoleonica", cioè dislocata nel tempo, dovrà attendere il genio di Jean Vilar e la fiabesca levità di Gérard Philipe per diventare sulla scena (e solo nel nostro secolo) quello che era stata anche e da sempre sulla carta. Solo dopo la rappresentazione parigina "Il principe" appare in tutta la sua potenza. L'invenzione kleistiana esplode; è il testamento di un poeta che sta per affrontare la morte: atterrito, la guarda negli occhi, senza pudori afferma di temerla e tuttavia scende con lei nella notte degli inferi e, una volta risalito alla luce, ha disimparato la paura.
Oggi Homburg, che la storia avrebbe relegato tra i tanti generali famosi per una vittoria, smessi i costumi seicenteschi suoi propri, o le uniformi ottocentesche coeve al suo autore, ci compare davanti come un eroe dei nostri tempi: il suo dolore, le sue ansie, i suoi dubbi sono esistenziali. E le "fanfare di guerra e di vittoria" che chiudono il dramma e che tanto hanno fatto discutere per il loro roboante patriottismo possono essere viste in una luce molto diversa. Esse non sono molto dissimili dall'urlo di Lucile che suggella "La morte di Danton* di George Büchner. Un "vive le roi!" definito da Paul Celan "antiparola che non si inchina più dinnanzi alle 'cariatidi e ai destrieri da parata della storia', atto di libertà (...) omaggio reso alla maestà dell'assurdo" (Celan, "La verità della poesia", Einaudi, 1993).
Di tutto ciò Rossana Rossanda rende conto in un'introduzione che ingloba le diverse prese di posizione di critici e poeti (Brecht e Bachmann tra gli altri) in un attentissimo percorso personale di approccio all'opera che parte dal di dentro, cioè dal lavoro sulle parole che la compongono. E malgrado avverta come la sua fatica di traduttrice abbia "raffreddato" certe ridondanze tipiche dell'epoca e del Kleist maestro dell'eccesso, la sua versione è tutt'altro che algida, a conferma di un dato di fatto: "Il principe" è un'"opera che fa innamorare", anche se trasposta in una lingua che non è la sua.
Il paragrafo che chiude la prefazione è un'esemplare riflessione su senso e uso del tradurre. "Questa traduzione è fatta per essere detta su una scena. È una scelta che comporta una fedeltà e qualche arbitrio". È vero: proprio l'arbitrio rende il tradurre un esercizio di vita e non un mero trasbordo da una lingua all'altra. Chi traduce gode delle sue fedeltà e soffre per ogni tradimento al quale però non è disposto a rinunciare, essendo quello il momento più "carnale" del suo solitario legame con l'altro di cui sta manipolando la scrittura. Quindi nella storia degli arbitri del traduttore riposa il segreto di una relazione esclusiva e gelosa di intrusioni altrui, e di un passaggio alchemico così delicato come quello della metamorfosi di una lingua in un'altra a lei estranea.
Per questa traduzione consiglierei anche un altro uso, un po' antiquato: in mancanza di un teatro, immagino un'altra scena, quella di una famiglia raccolta intorno a una madre che legge ad alta voce. Esercizio molto praticato in epoche meno convulse della nostra e che non sarebbe male riprendere proprio con un lavoro come questo, "fatto per essere detto" e per catturare la fantasia di adulti e bambini con la luce abbagliante delle sue notti.
Altra cosa, altra prospettiva quella del film di Bellocchio: un film plumbeo, lunare, notturno, di polvere e oscure macchie di verde. Il cast è così fuori luogo da indurre il sospetto che la scelta di tipi così lontani dal testo sia addirittura voluta. Anche la recitazione, anzi proprio la dizione, sembrerebbe evocare un continuo straniamento. Malgrado sembri un film mancato, la versione di Bellocchio ha un suo valore. Il buio avvolge e confonde il confine tra sogno e realtà, tra morte e vita per cui, alla fine, malgrado tutto, lo spessore della storia si impone: anche in questa veste, niente affatto brandeburghese, e in certo qual modo sommaria, il viaggio di Homburg appare denso di segni: è stata storia la sua o solo un sogno, uno scherzo, uno sberleffo?
Già Kleist, in un vetriolico epigramma, aveva scritto che il provvido svenimento della sua divina marchesa durante la violenza subita altro non era stato che una finzione. La marchesa, donna intelligente e padrona di sé, aveva solo chiuso gli occhi. Forse anche Homburg potrebbe aver solo giocato con una vita che nulla più aveva da offrirgli.
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