Il diavolo, si sa, presidia gli incroci. Letterari, teologici o, più semplicemente, culturali che siano, poco importa: a Tullio Gregory, del diavolo, importa l'esserci e lo starci come ombra significativa al crocevia della cultura d'Occidente; ovvero, importa l'esserci e lo starci al passaggio dal tardo antico alla prima età moderna, là dove si plasma e si definisce il volto identitario dell'Europa. Certo, "diavolo", alle orecchie della società attuale, economica, sbilanciata sul corpo e priva della mistica, può suonare come un termine scomodo, retorico o perlomeno "difficile"; ma, come è vero che la Bibbia è l'"universo mitologico (
) entro il quale la letteratura occidentale ha operato sino al XVIII secolo e sta in larga misura ancora operando" (Frye), così è vero che, molto spesso, il presupposto necessario per comprendere questa letteratura (dai Dialogi di Gregorio Magno a Bulgakov e oltre) è proprio quello di conoscere lui, l'ancestrale inimicus dal persistente odore di zolfo. Principe di questo mondo giova allo scopo. Perché, incrociando queste pagine, si ritrova per via il diavolo autentico, certificato, callidus et caliginosus, che promana dalla Scrittura e dall'esegesi monastica, soprattutto medievale. Qui non si incontra il Satana campionato, un po' noir, un po' horror, un po' gossip, svuotato dagli excursus tassonomici, dal repertoriamento folclorico o, peggio ancora, laicizzato dall'antropologia. No. Questo non è proprio l'ennesimo libro-clone sul demonio. A dispetto della sua agilità, è invece un libro importante, che riporta il diavolo al centro dell'unico discorso che può seriamente circoscriverlo: quello teologico. Da medievisti, a questo punto, più che formulare un auspicio, ci permettiamo di suggerire un'ilare posologia: tre paginette al giorno, dopo i pasti, per gli affetti da "tricksteria". Francesco Mosetti Casaretto
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