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Scrittura secca e incalzante; libro irridente e senza riguardi. Liquida con disinvoltura una gloria del Pantheon nazionale, Machiavelli, il consacrato, l’intoccabile, il “fondatore” della scienza politica; straccia Cesare Borgia, per alcune teste sognanti (“signore malate di Rinascimento”) principe dall’alto sentire, capace di unificare anzitempo l’Italia. Piccolo borghese dal cervello sottile, e la penna un po’"sicaria", il primo; roso da sogni di personale grandezza. Niente più che un gradasso, il secondo; un’energia primitiva, che fiuta e cavalca l’onda delle circostanze; un figlio della fortuna che va cercando nella grandezza e nella signoria sulle altrui esistenze, il lenitivo contro la sua paura di esistere. Il discorso cerca l’Italia “profonda”, l’impasto del paese dell’eterno brigare e corrompere, dell'ammiccamento e del gesticolio, del sangue e del ridere facili; sullo sfondo dell’immancabile pittoresco. Enigma cattivo e insondabile: non‒stato, non‒nazione, fabbrica maledetta di avventure individuali prosperanti sopra un popolo come nessun altro permeabile al vitalismo del mistificatore. La "patria" pare essere incatenata a maledizione super‒fisica: generare ciclicamente seduttori di diversa fortuna e durata. Tutte le volte che speciali circostanze lo permettano, le maglie larghe de “l’etica de noantri”, producono il fiutatore del vento. Cesare Borgia? Il prodotto del costume familistico‒predatorio che impregna le nostre fibre. Libro beffardo, serissimo, barocco, sorprendente: si inizia con Borgia che assedia Faenza, per poi trovarsi davanti Mussolini, Dumini, ed arcinote figure della recente stagione tele-populista. Libro di storia locale “col trucco”, alluso forse da quella citazione introduttiva di “Eros e Priapo” di Gadda. Raccontare una storia, significa perdersi nel mare degli infiniti imbrogli di tutte le altre: “Barocco è il mondo".
Attenzione a non prenderlo per un libro sulle guerre in Romagna al tempo dei Borgia. È un'altra cosa. E per capirlo sarà bene citare per intero il sottotitolo, "Come Cesare Borgia tolse dal mondo Astorre Manfredi. Con note sparse sopra la mente di un Tiranno". Il Tiranno, appunto; una buona metà del libro riguarda proprio questo, il ricorrente sogno di alcuni "umani" di poter calmare l'angoscia dell'esistere, attraverso il controllo totale delle altrui vite. L'eterno tema del potere e del suo fascino demoniaco. Cosa spinge certi individui a correre l'alea rischiosa e, spesso, mortale, della "grandezza"? E perchè attorno ad essi si forma magicamente ammirazione, consenso, identificazione? Tutto il libro è percorso da questi interrogativi. Lo splendido Duca - sempre al centro di estenuante rielaborazione nero-Fantasy - non ne esce bene: personaggio guappesco, iperattivo, roso a sua insaputa da ansia "da finitudine", paura della vita; eroe disperato della predazione in un mondo percepito "in orizzontale". E ancora meno bene ne esce lo stracelebrato segretario fiorentino: personalità cerebrale assai tentata dal brivido piccolo-borghese dell'azione; e fatalmente destinato ad andare in bambola di fronte alla febbre del vitalista. La narrazione scorre rapida tra eventi militari, ferocie, intrighi, ironie "tanatologiche", aperture improvvise su leggi generali della fisica; con una varietà di diramazioni sorprendente. Cesare e Astorre fan da cerniera. Dal primo e dalle sue oscurità, si passa al secondo: alle disgrazie, l'ingenuità, il rimpianto per l'errore fatto, le tetre giornate a Castel Sant'Angelo. Libro originale. Che tenta lo sguardo antropologico sul male specifico della storia nazionale. Nelle ultime pagine l'"italianità profonda", il vizio incistatosi nella nazione, risale i secoli e rispunta in pieno ventennio, nella Roma del delitto Matteotti, quando un altro fortunoso "Principe" manda in giro per la città il suo sicario. Libro inquietante. Per tutti. O quasi.
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