Da quando l'Italia si è trovata dotata di un "governo di professori", di un governo tecnico in ampia misura composto da docenti universitari, c'è una ragione ulteriore rispetto alla mera curiosità intellettuale perché un pubblico più vasto degli esperti in materia e della comunità scientifica sia interessato a conoscere aspetti, problemi e prospettive della professione accademica in Italia. Il carattere generalizzante, irriflesso e polemico di certe presupposizioni di conoscenza che animano e talvolta distorcono l'attuale dibattito in merito alle doti politiche del ceto universitario, immaginato da alcuni come corporazione omogenea, tendenzialmente sorda alle richieste della società e vessata da solipsistico e astratto isolamento, dovrebbe infatti sollecitare, anzitutto, una nuova domanda di conoscenza sulle caratteristiche di questa categoria da parte della sfera pubblica. Poi, non sarebbe superfluo stimolare qualche riflessione sul rapporto tra lavoro intellettuale come professione e ruolo politico dell'élite intellettuale (soprattutto quando questa sia di fatto chiamata a rivestire posizioni di potere): un rapporto che, come noto, il sociologo Max Weber invitava a recidere nettamente nel reame della scienza, senza per questo considerare le due assunzioni di ruolo affatto incompatibili nella vita sociale degli individui. Il volume collettaneo curato da Michele Rostan, direttore del Cirsis (Centro interdipartimentale di studi e ricerche sui sistemi di istruzione superiore) dell'Università di Pavia, risponde alla prima esigenza, rimanendo fedele al precetto weberiano di conservare un atteggiamento avalutativo nella ricerca scientifica, ma senza essere mosso da intenti critici o polemici (che invece potrebbero trovare posto dopo la ricerca del vero). Il libro offre un'accurata descrizione dell'autopercezione della professione accademica in Italia, sondata mediante inchiesta campionaria su un campione di 4.800 casi con un tasso di risposta del 35,4 per cento (la nota metodologica opportunamente confronta chi ha risposto e chi no), e alcune comparazioni molto interessanti con i risultati emersi in altri paesi europei (in particolare Finlandia, Germania, Norvegia e Regno Unito). Sfondo del libro è l'indagine comparativa, realizzata nel 2007-2008 nell'ambito di un progetto internazionale di ricerca denominato "The Changing Academic Profession", che ha coinvolto diciotto paesi. Essa ha riguardato la formazione dei docenti e dei ricercatori, il grado di soddisfazione per il lavoro, le prospettive della professione, il giudizio sulla riforma degli ordinamenti didattici, le attività di ricerca e le risorse disponibili, la produzione scientifica e la sua valutazione: tutti aspetti che, analizzati alla luce di variabili rilevanti (genere, età, posizione accademica, disciplina
), hanno permesso di ricostruire un quadro esauriente e soprattutto adeguatamente differenziato delle percezioni e delle valutazioni che hanno accompagnato le grandi trasformazioni del sistema accademico negli ultimi vent'anni (di cui, tra l'altro, il libro offre nel primo capitolo una chiara ricostruzione relativa all'Italia). Colmando un vuoto informativo sulle trasformazioni più recenti della professione (due sole indagini con obiettivi conoscitivi affini erano state finora condotte nel nostro paese, rispettivamente da Pier Paolo Giglioli all'inizio degli anni settanta, in un periodo segnato da una forte espansione della popolazione studentesca, e da Roberto Moscati, coautore anche di questo stesso libro, alla fine degli anni ottanta, dopo la riforma sull'accesso alla professione), questa indagine recente contribuisce a decostruire alcuni diffusi luoghi comuni, che sarebbero in realtà infondati; per esempio la credenza che gli accademici italiani siano meno produttivi a livello scientifico dei loro colleghi europei. Risulta invece confermato che essi soffrono di minori risorse destinate alla ricerca e che il nostro paese è in ritardo nel settore della valutazione. Nello stesso tempo, i risultati evidenziano una nuova crisi d'identità della professione: identità scossa, da un lato, dalla rinuncia alla formazione di élite intellettuali e da un investimento coatto sulla cosiddetta "terza missione" dell'università (ovvero sul ruolo attivo delle università nello sviluppo economico e sociale del territorio), dall'altro, dalla sfida portata alla centralità della ricerca da nuove incombenze amministrative e gestionali. Una crisi d'identità congettura personale che potrebbe accrescere le attrattive dell'opzione di assumere cariche politiche. L'indagine coglie altre ragioni di pessimismo. Tra queste, il diffuso giudizio negativo pur differenziato per aree disciplinari sulla riforma degli ordinamenti didattici, che avrebbe mancato due dei suoi principali obiettivi: favorire la mobilità studentesca, soprattutto quella internazionale, e promuovere un migliore rapporto con il mondo del lavoro. Il 74,5 per cento del campione, inoltre, condivide l'affermazione secondo cui "è un brutto periodo per qualsiasi giovane che intenda iniziare la carriera accademica". Va tuttavia sottolineato che, dall'utile confronto con il caso tedesco, emergono alcune ottime soluzioni in relazione alle prime fasi di accesso alla carriera, sulla cui eventuale importazione nel nostro sistema sarebbe davvero il caso di iniziare a ragionare. Fiammetta Corradi
Leggi di più
Leggi di meno