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"Il Saggiatore" ripropone il primo libro di Antonio Riccardi, "Il profitto domestico", pubblicato da Mondadori nel 1996: opera che già vent'anni fa aveva riscosso positivi commenti da parte dei critici. A ribadire nei lettori l'impressione di allora, sono ancora gli stessi versi radicati in una geografia e in una storia assolutamente personali, che ambiscono però a farsi portavoce di una sensibilità collettiva. Scandito in dieci sezioni, il volume abbraccia un orizzonte naturalistico, immerso in un paesaggio padano profondamente vegetale: bosco, erba, foglie sono i termini più presenti, nella loro lussureggiante e umida frescura, insieme all'acqua di fiumiciattoli, a sentieri che si inerpicano, a sassi e improvvise radure. In questa campagna dell'Appennino parmense, da cui Riccardi proviene, l'economia è stabilmente domestica, rurale, concretizzata in abitudini contadine. Il compito del poeta è quello di un recupero archeologico e di una testimonianza morale: giustamente Alberto Casadei, nella sua approfondita postfazione, parla di «componente etica» della raccolta. La ricerca delle radici si attua in una ricomposizione di ritratti di parenti nati tutti nell'800, e tutti destinati a una sorte fallimentare di perdenti, di esclusi. Generazioni che si sono succedute nella conquista, nel mantenimento e poi nel lento decadere del podere della famiglia Riccardi a Cattabiano, in perenni rincorse di un «profitto domestico» destinato però alla rovina. Non è un caso, forse, che gli aggettivi più ricorrenti nel libro siano «questo» e «ogni», quasi a voler continuamente ribadire una radicalizzazione nella concretezza della storia personale dell'autore, un «qui e ora» che rimangono pur nel rincorrersi degli anni, in un passato che permane e si vivifica anche nel presente inurbato, e dovunque si riesca a recuperare poesia.
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