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Un "trattato d'occasione", quello di Irene Borgna, che, richiamando il procedere della "filosofia d'occasione" di Gunther Anders, parte dal constatare il peso della crisi ambientale del mondo contemporaneo per ripercorrere il cammino evoluzionistico del pensiero occidentale nella relazione dell'individuo con l'ambiente, alla ricerca, per così dire, di spiegazioni sulla diffusione del pensiero antropocentrico nei confronti della natura. A ben vedere, non si tratta solo di questo, in quanto il problema reale non è solamente rappresentato dal rapporto della predominanza umana nei confronti dell'ambiente, ma dalla scarsa consapevolezza dei cittadini globali di questo particolare stato. Uno stato che lega l'essere umano a un ampliamento dei propri poteri biologici in relazione alla dipendenza dai prodotti industriali (Georgescu-Roegen). Tra individualismo (antropocentrico, se non antropo-genico) e olismo (bio-ecologico) l'umano è, sicuramente, l'unico essere vivente a essere stato in grado di "darsi la zappa sui piedi" e di "insozzare il suo nido" (White).
Certamente un rilievo considerevole è determinato dai media, come definito all'interno del rapporto State of The World 2010 del Worldwatch Institute di Washington. Ma le responsabilità sono chiaramente multidimensionali e il radicamento storico di determinati processi culturali contribuisce in maniera decisiva alle scelte dei singoli e delle società umane.
La trama del percorso etico, filosofico e scientifico del pensiero umano nel rapporto con la natura è costruita nel volume attraverso una prospettiva culturale non soffocata da una trattazione basata su un monolinguismo specialistico, come avviene invece in molti altri testi sull'argomento. Non ricostruisce un percorso storico in qualche misura fine a se stesso, ma il suo obiettivo, nel fare "filosofia d'occasione", è chiaramente bio-politico, ovvero teso a ricostruire l'autocoscienza dell'individuo nei confronti del suo agire e del suo percorso (potere?) nel mondo. In contrasto con il furore antropocentrico e con il meccanicismo deterministico dell'età della scienza e del secolo dei Lumi, la prospettiva biocentrica del pensiero occidentale nei confronti dell'ambiente si plasma nel tempo a partire dalle matrici scientifiche e filosofiche più organicistiche (forse a partire con la precipua ecologia organica, contrapposta al pensiero meccanicistico). L'evoluzione concettuale del pensiero ecologico conduce al confronto tra il movimento della Deep Ecology ("ecologia profonda", teoria elaborata all'inizio degli anni settanta dal filosofo norvegese Arne Nµss) e il movimento della descrescita conviviale, il cui esponente principale è Serge Latouche. Oggi, il grado di consapevolezza ecologica della popolazione urbana mondiale è piuttosto basso (misurabile tramite un test proposto da Devall e Sessions in Ecologia profonda) e l'ecologismo è ancora ben lungi dal far parte della cultura di massa. Pare in buona parte vero il fatto che l'azione ecologista, come quella pacifista, sia propria degli asceti, dei valorosamente puri e di chi, in definitiva, non è di questo mondo (Langer). Tuttavia, le cose si modificano rapidamente nel tempo, a livelli di coinvolgimento diverso. Il problema principale è certamente quello di trovare il modo di rendere consapevoli e partecipi le persone. Innanzitutto, sarebbe necessario differenziare i meccanismi di decrescita: solo ricostruendo il rapporto individuo-natura dal basso, partendo dal locale e dalle specificità bioculturali dei vari contesti territoriali, è possibile ipotizzare un cambiamento di rotta. In secondo luogo, bisognerebbe mirare all'ecodemocrazia, una politica ecologica che può essere integrata a livello dello stato di diritto, con livelli differenti di coercizione in base a un diffuso principio di sussidiarietà. Infine, si dovrebbe raggiungere una migliore qualità delle reti e delle relazioni di scambio, sulla scia dei Sel (Sistemi di scambio locale) e dei Gas (Gruppi di acquisto solidale) e sulla base delle esperienze attualmente diffuse nel "piccolo popolo dei decrescitori profondi". Certamente, sulla vasta scala, un problema aperto è legato a come riuscire a gestire i meccanismi di regolazione delle filiere corte e lunghe, soprattutto per i beni di consumo comune, sulla base di principi democratici non basati soltanto sul mercato: esempi di territori che difendono le specificità in modo efficace già ce ne sono, e producono anche risultati. Forse il principio di differenziazione, alla fine, è il migliore di tutti. Alberto Di Gioia
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