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recensione di Verdino, S., L'Indice 1998, n.10
Tra le diverse e recenti pubblicazioni sbarbariane (ricordo l'antologia delle poesie curata da G.Costa e il saggio di Antonella Padovani Soldini, "Ho bisogno d'infelicità", entrambi editi da Scheiwiller), spicca questa lettura a tutto tondo della prima e storica edizione di "Pianissimo", il volume di versi che nel 1914 consegnò il nome di Sbarbaro a una pagina nuova della poesia italiana. All'apparire del libro Giovanni Boine nei suoi "Plausi e botte" ne parlò come di una poesia capace di sfidare i millenni, e oggi, per lo meno, possiamo verificarne la sfida al secolo che si sta consumando, come d'altronde questo sempre più vivo interesse dimostra. Direi che proprio l'impostazione che Coletti ha voluto dare alla lettura di "Pianissimo" tiene conto di uno sguardo di lettura decisamente da postero e anche lontano dai grandi miti del secolo.
Ma procediamo con ordine: il saggio esce nella collana "Libro per libro", diretta da Anna Dolfi, e segue un puntuale criterio: analisi della forma, dei temi, note di variantistica tra la prima edizione del '14 e la "normalizzazione" della seconda del 1954, "condotta dal suo autore con una singolare dimenticanza delle più radicali ragioni" della sua poesia; seguono infine, il rendiconto dei nuclei chiave di "Pianissimo", dal motivo ricorrente della desertificazione del mondo, all'iconografia metropolitana, alle dominanti del sonno-risveglio e della centralità degli occhi, ai vari motivi correlati all'io come la lussuria, la famiglia, la natura, il nichilismo, la perdizione e la trasgressione impossibile.
Nella sua analisi Coletti lavora soprattutto su un piano intertestuale, non solo all'interno delle dinamiche e delle rispondenze nel libro, ma anche su più ampi contesti, non solo italiani. Coletti è molto attento a far risaltare la voce di Sbarbaro sui coevi crepuscolari e sull'eredità pascoliana, rimarcando i frequenti debiti, ma soprattutto la nettissima e personale risultante poetica; altrettanto a fuoco è il versante per così dire discendente, cioè il nesso Sbarbaro-Montale, scandito sia nella dimensione evolutiva, sia nel netto scarto tra il nitido disincanto del primo e la tensione al miracolo del secondo. Ma il timbro originale di Sbarbaro sgorga anche dal confronto con Saba per il comune, quanto diverso, motivo della città e, in modo decisamente inedito, con il Valéry di "Monsieur Teste", cioè con un altro sottile maestro della riduzione dell'io.
E siamo in qualche modo al nucleo dell'interpretazione colettiana, così nettamente consegnata al titolo legato all'"Io minore"; sotto questa rubricazione va subito tolto ogni equivoco crepuscolare (al di là dei materiali di recupero individuati): la minorità dell'io sbarbariano, non a caso consegnata a una tecnica di "prove", viene rilanciata come una strategia di allontanamento dall'esibito teatro dell'ego, che ha occupato gran parte del Novecento, grazie al riverbero della psicanalisi, fortemente ridimensionata nella sua funzione interpretativa, in queste pagine. Ad esempio, commentando le famose poesie di Sbarbaro dedicate al padre, Coletti con molta acutezza osserva come il padre sbarbariano sia ben poco compatibile con la tipica letteratura sul padre di tanto Novecento: l'ambivalenza con il genitore è nettamente dichiarata, né occorre un rito di liberazione, dal momento che "Sbarbaro sa che la liberazione dalla colpa è impossibile e in fondo ingiusta; sospetta, nel suo radicale laicismo, che forse non è giusto pagare un prezzo per autoassolversi". Ciò in fondo è possibile proprio in virtù di quell'io minore sbarbariano, poco esibito (neanche nella controesibizione del "coso con due gambe" gozzaniano), perché Sbarbaro è il poeta che non può, per sua fortuna, assolutizzare nulla, neanche il negativo e il nichilismo pure tanto inseguito: "Sbarbaro capisce che il disgusto, l'odio non sono degli assoluti, come hanno creduto le due ultime grandi filosofie del secolo scorso, il marxismo e la psicoanalisi; che il rifiuto si alimenta dell'adesione, la vicinanza della lontananza, l'estraneità del desiderio".
C'è in questa frase una buona dose di stimolante provocazione, in quanto si delinea uno Sbarbaro decisamente nostro contemporaneo, come poeta alieno da ogni ideologia e invece consapevole della continua realtà della contraddizione, uno Sbarbaro, verrebbe da dire, letto con gli occhi di Caproni, e della più alta poesia del secondo Novecento (dall'ultimo Luzi a Giudici) piuttosto che con quelli di Montale. Scavando nel nucleo dei disadorni e netti versi di "Pianissimo", Coletti mette in rilievo non tanto lo Sbarbaro noto profeta di Montale, ma un nuovo e più attuale (postmoderno?) Sbarbaro che nel suo pieno disincanto, constata la tautologia dell'essere e dell'esistere (quel suo famoso e ineguagliabile verso nella sua totale frontalità: "e tutto è quello / che è, soltanto quello che"), per cui non sono operanti né i ribellissimi decadenti, ma neppure il tragico destino dell'io montaliano, portato infine al proprio esibito forfait saturesco.
È uno Sbarbaro cosciente dell'inesorabilità e anche dell'inermità della condanna dell'esistere", che Coletti ci restituisce, dopo varie letture tese a esaltare il suo sobrio maledettissimo o la gamma delle campionature psicanalizzabili. Tra i vari contesti che Coletti istituisce (e che ci rivelano nel loro insieme i risvolti di un poeta davvero grande) mi ha particolarmente colpito il cenno all'affinità con "una figura di 'deraciné' più congeniale a lui, meno demoniaca e più elegiaca, meno rimbaudiana e più chapliniana, si potrebbe dire", soprattutto nella gamma della marginalità sofferta e patetica, discreta, che l'io del poeta istituisce nella sua relazione con il mondo.
Il saggio, al di là della specificità sbarbariana, evidenzia anche una poetica d'autore, il cui nervo scoperto è costituito dai vari attacchi all'abuso della troppo schematica chiave analitica, a cui viene contrapposta una pratica di poesia non antagonista al mondo, ma capace di viverne con occhi disincantati i contraddittori nessi, senza alcun privilegio dell'io, solo con un sobrio tratto di "decenza quotidiana" di cui Sbarbaro è sempre stato maestro.
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