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Dettagli

2002
1 marzo 2002
208 p.
9788872852705

Voce della critica

PSICHE E GUERRA

Immagini dall'interno

a cura di Anna Maria Sassone

pp. 207, e 11,

manifestolibri, Roma 2002

"Quel giorno ho lavorato male...", comincia così uno dei saggi contenuti in questo libro, denso di pensieri ed emozioni, frutto dell'incontro di alcuni psicologi analitici junghiani, bisognosi di condividere una ricerca di senso - per sé e per i loro pazienti - in un momento massimo di orrore.

"Quel giorno", infatti, è l'11 settembre del 2001.

Fin dai primordi della psicoanalisi, Freud, Jung, Tausk, Klein, e poi Bion e Money Kyrle, hanno scritto pagine alte e dolenti sulla guerra e la distruttività umana, sui meccanismi di massa del plagio e del consenso; a rileggerle oggi appaiono ancora belle e convincenti, anche se ci si chiede con sconforto perché ne abbiamo tratto così poco profitto. Sembra anzi che alla amara lezione freudiana secondo la quale gli istinti non evolvono si aggiunga la tipica perversione della nostra epoca, che vede i livelli più sofisticati dell'intelletto - scienza, tecnologia, economia, politica...- al servizio degli impulsi di distruzione più ciechi e primitivi.

In questa raccolta di saggi, peraltro, non si indagano i grandi temi metapsicologici; ma - a partire dal laboratorio clinico, fino ad arrivare all'esperienza quotidiana di vita - ci si interroga su come le immagini della catastrofe dell'attentato alle torri gemelle ci abbiano cambiati, e - per contro - su quanto tali immagini abbiano rispecchiato uno scenario che era già in noi: un déjà vu veicolato da tanta fiction che a sua volta prefigurava profonde angosce collettive.

Un evento perturbante davvero speciale - concordano tutti gli autori - che ha sbaragliato il confine tra realtà interna e realtà esterna, tra verità e fantasia, e ha forzato il nostro io ad erigere nuovi argini difensivi contro l'ansia di disintegrazione e la minaccia di una confusione paralizzante.

È naturale chiedersi quanto peso assumano nel libro le due caratteristiche basilari degli autori: l'essere psicoterapeuti di area junghiana e l'essere in netta preponderanza (dieci a due) donne.

Per quel che riguarda la cifra junghiana, indubbiamente essa si percepisce: si parla in termini di "archetipi" e di "ombra"; vengono citati Jung, Neumann, l'onnipresente Hillman (ma anche tanti altri: da Freud, a Winnicott, a Fornari). Tuttavia, a parer mio, in questa circostanza sono più rilevanti gli elementi concettuali comuni a tutti coloro che operano nel territorio dell'inconscio e con i processi relazionali del transfert e del controtranfert.

Per quel che riguarda la cifra femminile direi invece che la connotazione è forte. Le speculazioni astratte pure sono minime, mentre le riflessioni sono orientate precipuamente alla microprocessualità dell'esperienza clinica, all'intreccio tra mondo interno e mondo esterno, a restituire all'apparente oggettività dei fatti uno spessore simbolico. Dichiaratamente, "il fine non è educativo, ma riflessivo" (Anna Maria Sassone). Così (Anna Pintus) si parla dei sogni (di trasloco, smobilitazione, disorientamento, precarietà...) di chi magari della catastrofe non aveva fatto cenno in seduta; del fascino distorto che Bin Laden ha esercitato su alcuni ragazzini, nostalgici di un modello di padre forte (Paola Rocco). Oppure (Pina Galeazzi) si scrive qualche pagina di diario, alternando la rilettura dei classici e il proprio smarrimento privato; l'ascolto clinico e la non meno ardua necessità di rispondere alle domande che facevano i figli in quei giorni.

Ciò che è più difficile, infatti, a fronte di eventi traumatici collettivi, è ammettere umilmente che siamo in gioco anche noi psicoterapeuti - spaventati, incerti, dubbiosi come i nostri pazienti; magari, si spera, un po' più consapevoli - senza per altro dimenticare il nostro ruolo professionale di contenimento delle angosce altrui; senza abdicare all'imperativo psicoanalitico di cercare di trasformare una sofferenza individuale in un interrogativo scientifico.

Se un secolo di psicoanalisi non è servito a cambiare il mondo, non credo questo significhi che siamo condannati all'impotenza; siamo semmai obbligati a una conflittualità perennne contro le pulsioni distruttive, dentro e fuori di noi. Penso che il compito basilare del lavoro clinico odierno consista analizzare le difese patologiche contro l'angoscia: quelle tradizionali - come la negazione, la scissione, la proiezione - e quelle moderne, come l'ambiguità e l'indifferenza.

Se non siamo in grado di estirpare il Male, possiamo almeno - e non è poco - rompere il rinforzo reciproco che sempre si stabilisce tra odio e paura.

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