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Non è un fatto da passare sotto silenzio la riedizione, da parte di Castelvecchi, di un'antologia storica qual è Il pubblico della poesia, firmata nel 1975 da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli: è un documento importante di quella fase che segnò il passaggio dal dibattito e dalle esperienze della neoavanguardia a quella lunga fase di fuoruscita dallo sperimentalismo degli anni sessanta verso una pratica di poesia, polimorfa, diffusa, contraddittoria, che segnò i decenni successivi e la cui onda lunga non si è ancora del tutto smorzata.
L'operazione - siglata da un sottotitolo (Trent'anni dopo) che accende la nostalgia o una curiosità "d'appendice" - è dovuta a Giorgio Manacorda, che qui firma la quarta di copertina e che accompagna questo volume con altri due di cui è immediatamente l'ispiratore. Questo per sottolineare come la riedizione costituisca un'operazione "d'autore", fortemente segnata dall'intenzione di Manacorda di riconsiderare le esperienze di un recente passato, rapportando le peculiari esigenze di una creatività oggi difficile - se non improbabile - quale quella letteraria, a un percorso fatto di speranze, furbizie, contraddizioni.
Gli stessi percorsi dei due autori dell'antologia non potrebbero essere più diversi, a partire da quell'epoca in cui si confondevano mete, itinerari, metodi: come d'altronde sono diversi i modi in cui guardano a quel libro di trent'anni fa.
Franco Cordelli, narratore e saggista d'intelligenza intrigante e capziosa, distilla una letteratura come riflessione costante sulle dinamiche di una quotidianità avvertita per lo più come ostile, conflittuale, ma di cui si è irrimediabilmente corresponsabili. Così Cordelli, introducendo questa riedizione dell'antologia, dopo averne dichiarato il valore di monumento - tra la nostalgia e l'ineluttabilità - alla militanza, ne ricorda, dell'antologia, la "caratura tutta speciale" che le deriva dall'essere contemporanea agli eventi, tragici, che inaugurarono un'epoca, negli anni settanta e nel decennio successivo, che segnò profondamente il nostro paese, dal terrorismo all'avventura craxiana: l'antologia "di quel tempo è un piccolo riflesso", ma ne è pur sempre, nei suoi modi, una testimonianza.
Ben diversa è la posizione dichiarata da Berardinelli. Quanto Cordelli ammette i rapporti non esorcizzabili con la neoavanguardia, tanto Berardinelli non perde occasione per affermare l'irriducibile ostilità con il mondo dello sperimentalismo, delle strategie, delle "tendenze". Rispetto a ciò che, negli anni sessanta, sembrava l'unico programma possibile per chi volesse fare poesia ("proporre se stessi, scrive Berardinelli, come la soluzione più avanzata del problema dell'arte era un gioco che ancora piaceva molto"), ecco un'antologia "che accettava di accogliere una pluralità di tendenze", testimoniando "la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni". Insomma, una poesia che "nasceva ormai fuori dall'autocoscienza storica". Da questo però deriva - come scrive lo stesso Berardinelli - che, dopo trent'anni, invece che pluralità e compresenza di tendenze, c'è piuttosto una vera e propria confusione critica: e dunque la necessità, ripartendo proprio da queste pagine, di ripercorrere letture e giudizi di questi tre decenni per verificare quanto tengano ancora testi, personaggi, linguaggi. Il saggio con cui lo stesso Berardinelli introduce il volume, fra tecnicismi d'epoca e prospettive cautamente postmoderne - come l'(allora) obbligatoria citazione barthesiana nel titolo Effetti di deriva - indica percorsi diversi, distanti, tutti tesi a soppiantare l'epoca dellÆexperimentum con quella, recuperata, dell'" esperienza vissuta " e del "problema della sua forma ".
La pluralità dei linguaggi sembra volere essere l'orizzonte su cui meglio si definisce il senso dell'operazione: e vi troviamo, appunto, poeti attivi su prospettive molteplici, di cui lo "schedario" conclusivo, insieme all'intervista iniziale, indica biografie intellettuali diversissime. Da Conte a Cucchi, da Frabotta a Greppi, da Orengo a Davico Bonino, Bellezza, Spatola, Zeichen, Maraini, Cavalli, Viviani, De Angelis, Scalise, Lolini, Lamarque, per un totale di quarantadue autori, che poi diventano sessantacinque nelle schede. Ma - a proposito delle presenze - ciò che rende più perplessi è un assai curioso turnover di testi. La responsabilità di questa scelta sembra essere di Cordelli che, in nota, richiamandosi ancora una volta al carattere in progress dell'antologia, parla di uno "spostamento dell'obiettivo" per giustificare il cambiamento di alcuni autori antologizzati: al posto di cinque poeti presenti nell'edizione '75, altri cinque nuovi. Con quali criteri di scelta non è chiaro, come non è chiaro il senso di tutta la sostituzione: si spera che non si tratti di un mobing dovuto a faide di parrocchia o ad antipatie insorte nel frattempo.
Il tutto appare una testimonianza d'antan: album di famiglia sorprendente, strategie dei due curatori che indicano come i loro itinerari siano stati, da quel momento, quasi opposti. Cordelli teso a un lavoro letterario via via più concentrato su un'idea di militanza come rovello e come scavo, aspro e poco cordiale, dei linguaggi e delle forme; Berardinelli proiettato verso un ruolo "trionfante" del critico che attraversa testi, epoche, personaggi per inseguire una sua personale idea di centralità della critica come sistemazione razionale, magari eccentrica e provvisoria, dell'esistente. Tutte forme di sopravvivenza della letteratura: ma è certo che, come Jakobson scriveva di Majakovskij e dei compagni d'avventura, questa è un'altra generazione (e forse sarà l'ultima) che ha dissipato i propri poeti.
G. Patrizi insegna letteratura italiana all'Università del Molise
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