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Del grande Hemingway conosciamo le opere e i capolavori, ma la sua vita privata? Se siete curiosi, questo libro fa per voi. Spulcia nella vita di Hemingway attraverso quattro donne e quattro città. le quattro donne sono state tutte sue mogli ed è molto interessante "ascoltarle". Molto consigliato.
Recensioni
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Mansuete, forti, generose, indipendenti, gelose, ossessive, traboccanti di personalità, eppure così fedeli, sottomesse, disperatamente innamorate di Ernest Hemingway. Hadley Richardson, Pauline Pfeiffer, Martha Gellhorn e Mary Welsh, le quattro mogli del celebre premio Nobel, hanno accompagnato dalla giovinezza alla morte una delle figure più geniali e conturbanti del Novecento, fondamentali per l’equilibrio – purtroppo instabile – dello scrittore americano, ma continuamente adombrate dal suo successo.
È Naomi Wood a dare loro voce, in questo brillante romanzo che si fa leggere con la voracità dei pettegolezzi sulle riviste patinate – l’attrattiva della storia a tre, una costante delle relazioni di Hemingway – e il piacere scaturito da una narrazione elegante e fluida, anche se spesso paratattica. I dettagli di cui il libro è costellato si focalizzano su elementi velati di sensualità: il trucco, la bocca, la sigaretta, particolari che manifestano il fascino umbratile di queste donne, ognuna espressione di un Novecento che si snoda tra gli anni Venti e Sessanta, sullo sfondo di Antibes, Key West, L’Avana, Ketchum.
«Divertiti. Non tutte possono farsi chiamare Signora Hemingway». Da queste parole, che Martha rivolge a Mary, ricaviamo una delle chiavi del rapporto che lega Hemingway alle sue consorti: il prestigio di essere la Signora Hemingway (il riflesso di un uomo affascinante, di un talento letterario unico) lusinga tutte le donne che gli si accostano. Nonostante il personaggio che emerge sia tutt’altro che esemplare – Hemingway sembra un uomo votato principalmente al culto di se stesso, egocentrico, fragile e violento allo stesso tempo – il mito che irraggia conquista anche le più tenaci, alcune delle quali – Mary Welsh – rinunceranno alla loro carriera di reporter per assecondare il marito.
È comunque un romanzo di donne. Neanche Ernest Hemingway riesce ad accaparrarsi tutto lo spazio che forse pretenderebbe: sono comunque più forti e il loro amore, a volte cieco, a volte rancoroso, a volte rassegnato, connota il romanzo in modo irreparabile. È attraverso esso che vivono, si muovono, respirano. Non, quindi, attraverso Ernest Hemingway, ma grazie a un sentimento che le definisce come individui. Questo, sorprendentemente, non rende “Quando amavamo Hemingway” un romanzo d’amore, ma piuttosto una storia d’identità, di ricerca, di devozione.
Forse sono proprio loro, le mogli, ad aver utilizzato Hemingway per soddisfare il proprio ego.
Recensione di Federica Urso
Mansuete, forti, generose, indipendenti, gelose, ossessive, traboccanti di personalità, eppure così fedeli, sottomesse, disperatamente innamorate di Ernest Hemingway. Hadley Richardson, Pauline Pfeiffer, Martha Gellhorn e Mary Welsh, le quattro mogli del celebre premio Nobel, hanno accompagnato dalla giovinezza alla morte una delle figure più geniali e conturbanti del Novecento, fondamentali per l’equilibrio – purtroppo instabile – dello scrittore americano, ma continuamente adombrate dal suo successo.
È Naomi Wood a dare loro voce, in questo brillante romanzo che si fa leggere con la voracità dei pettegolezzi sulle riviste patinate – l’attrattiva della storia a tre, una costante delle relazioni di Hemingway – e il piacere scaturito da una narrazione elegante e fluida, anche se spesso paratattica. I dettagli di cui il libro è costellato si focalizzano su elementi velati di sensualità: il trucco, la bocca, la sigaretta, particolari che manifestano il fascino umbratile di queste donne, ognuna espressione di un Novecento che si snoda tra gli anni Venti e Sessanta, sullo sfondo di Antibes, Key West, L’Avana, Ketchum.
«Divertiti. Non tutte possono farsi chiamare Signora Hemingway». Da queste parole, che Martha rivolge a Mary, ricaviamo una delle chiavi del rapporto che lega Hemingway alle sue consorti: il prestigio di essere la Signora Hemingway (il riflesso di un uomo affascinante, di un talento letterario unico) lusinga tutte le donne che gli si accostano. Nonostante il personaggio che emerge sia tutt’altro che esemplare – Hemingway sembra un uomo votato principalmente al culto di se stesso, egocentrico, fragile e violento allo stesso tempo – il mito che irraggia conquista anche le più tenaci, alcune delle quali – Mary Welsh – rinunceranno alla loro carriera di reporter per assecondare il marito.
È comunque un romanzo di donne. Neanche Ernest Hemingway riesce ad accaparrarsi tutto lo spazio che forse pretenderebbe: sono comunque più forti e il loro amore, a volte cieco, a volte rancoroso, a volte rassegnato, connota il romanzo in modo irreparabile. È attraverso esso che vivono, si muovono, respirano. Non, quindi, attraverso Ernest Hemingway, ma grazie a un sentimento che le definisce come individui. Questo, sorprendentemente, non rende “Quando amavamo Hemingway” un romanzo d’amore, ma piuttosto una storia d’identità, di ricerca, di devozione.
Forse sono proprio loro, le mogli, ad aver utilizzato Hemingway per soddisfare il proprio ego.
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