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Stiamo vivendo, come teme qualcuno, una vera e propria eclisse dei diritti umani? Un'eclisse scattata più di sei anni fa, quando la nuvola di polveri provocata dal crollo delle torri gemelle di New York doveva ancora posarsi, ma tuttora in atto. Una risposta affermativa è, purtroppo, la sconsolata constatazione di quei rari politici che si sono realmente impegnati per ripristinare la certezza del diritto nella lotta al terrorismo internazionale. Uno di questi è Claudio Fava, parlamentare europeo, e anche giornalista. Quei bravi ragazzi è il racconto del lavoro di una commissione d'inchiesta del Parlamento europeo, la Commissione temporanea sulle presunte attività illegali della Cia in Europa, nata, come scrive l'autore, per indagare "sui peccati della Cia e sulle bugie dei governi europei".
Nelle sue conclusioni il rapporto (pubblicato in appendice al libro) sottolinea che la lotta al terrorismo "va condotta sulla base dei nostri valori comuni di democrazia, Stato di diritto, diritti umani e libertà fondamentali e la tutela degli stessi". In proposito, il Parlamento europeo giudica che dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 la cosiddetta "guerra al terrore", "con i suoi eccessi", abbia prodotto "una grave e pericolosa erosione dei diritti umani e delle libertà fondamentali".
Una valutazione apparentemente pacifica, che l'opinione pubblica europea sembra in larga misura condividere. Va detto, però, che le conclusioni del rapporto sono state sonoramente ignorate dai governi europei e, in particolare, da quello italiano, unico, insieme a quello polacco, a non incontrare la commissione. A marzo di quest'anno solo quattro dei ventisette governi dell'Unione avevano risposto alle domande sulle attività della Cia che la commissione europea, su richiesta del Parlamento, ha rivolto ai paesi membri.
La proposta di creare una commissione d'inchiesta, ci racconta Fava, era passata quasi all'unanimità. Le ostilità sono venute fuori durante i lunghi mesi di lavoro, man mano che emergeva la trama delle complicità dei governi europei nel sistema delle renditions, o sequestri extragiudiziari organizzati dagli Stati Uniti per interrogare e neutralizzare sospetti terroristi. Persone fatte scomparire con la forza e trasportate, con voli segreti, verso paesi compiacenti dove sono state torturate. Il caso più eclatante di extraordinary rendition è il caso di Abu Omar, l'egiziano residente a Milano, catturato da agenti della Cia in pieno centro e portato, attraverso due basi Nato europee, in Egitto, dove è stato torturato. Fava racconta che è stata l'audizione del procuratore milanese Armando Spataro, con la sua puntigliosa e inconfutabile ricostruzione del sequestro Abu Omar, a dare una svolta all'indagine. Le lodi del Parlamento europeo per il lavoro e l'indipendenza dei magistrati di Milano rendono ancora più incomprensibile l'atteggiamento del governo italiano, arrivato addirittura a citare gli stessi magistrati davanti alla Corte costituzionale per violazione del segreto di stato.
I magistrati e il Parlamento concordano nel definire le renditions non solo illegali, ma anche inefficaci. Lo spiega nel libro Maher Arar, cittadino canadese di origine siriana, consegnato dalla Cia al suo paese d'origine per essere torturato: sotto tortura non si dice il vero, si dice quello che i torturatori vogliono sentire. Il sequestro di Abu Omar ha danneggiato una delicata inchiesta giudiziaria in corso. Quello che colpisce, però, è che il sistema messo a nudo dal rapporto, con centinaia di voli segreti (336 scali solo in Germania, 46 in Italia) e l'installazione di prigioni segrete anche in Europa, costituisce una vera e propria sovversione dei principi e dei valori nel nome dei quali il presidente Bush aveva chiesto, e ottenuto, la solidarietà del mondo. L'universalità dei diritti umani è stata cancellata nel nome della protezione degli Stati Uniti. Il principio fondante della Nato, il controllo dell'apparato militare da parte del potere civile, elevato, a parole, a condizione d'ingresso nell'organizzazione, è stato aggirato, nei fatti, dall'amministrazione statunitense per ottenere coperture militari e basi segrete in due nuovi paesi membri: la Polonia e la Romania.
Tutto questo è oggi di pubblico dominio grazie al lavoro, in primo luogo, di giornalisti e militanti dei diritti umani americani. Allora viene da chiedersi che cosa spinge tuttora i governi europei a continuare a negare l'evidenza, oltre che i propri principi, e a rifiutarsi di sottoscrivere un impegno a vietare l'uso di basi e aeroporti sul proprio territorio per altre renditions. La commissione del Parlamento europeo ha cercato la risposta in un protocollo della Nato firmato ad Atene il 4 ottobre 2001, in attuazione dell'articolo 5 del Trattato, quello sulla mutua difesa, ma gli fu opposto il segreto.
Trasformare un'inchiesta parlamentare in libro e racconto avvincente non è facile. La scelta del titolo del libro di Fava, identico a quello di un film di Martin Scorsese, avvicina questa storia, con qualche ragione, al cinema di avventura. Il libro apre con la descrizione della morte di un prigioniero uzbeko bollito vivo dai suoi aguzzini. L'intento, così come per qualche altro episodio romanzato, è quello di avvicinare un'indagine di straordinaria importanza a un pubblico il più vasto possibile. Il rischio, però, è quello di essere imprecisi. Così come sarebbe stato utile potere consultare un indice analitico, o conoscere le fonti grazie a qualche nota a piè di pagina. Cose perfettamente possibili senza essere pedanti.
Un ottimo esempio lo ha fornito un altro protagonista di questa storia: l'ambasciatore inglese in Uzbekistan Craig Murray, che ha raccontato la propria sfida ai peggiori compromessi della "guerra al terrore" in un bel libro dal titolo altrettanto intrigante: Murder in Samarkand. Murray è un raro esempio di whistleblower, un "pifferaio" degli abusi del potere, pronto ad andare fino in fondo e rimetterci la carriera. Ha denunciato i metodi dell'ultimo alleato del presidente Bush nella guerra al terrore, il presidente uzbeko Islam Karimov, e rivelato il tentativo (riassunto in un parere legale del Foreign Office) di legittimare l'uso di confessioni estratte sotto tortura.
Sia Murray che Fava hanno compiuto uno sforzo di verità per ripristinare il diritto. Le risposte, per ora, sono ferme a livello europeo. A meno che i giudici, in Italia ma anche in Germania, arrivino a stanare i responsabili e garantire così che tutto ciò non accadrà più. Tana de Zulueta
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