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Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro - Giovanni Mazzetti - copertina
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Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro - Giovanni Mazzetti - copertina
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Descrizione


Il libro si propone di dimostrare che, nell'attuale fase storica, non solo è possibile, ma addirittura necessario ridurre il tempo individuale di lavoro a parità di salario. La dimostrazione è condotta seguendo un percorso che richiede quattro passaggi fondamentali. Il primo, una riflessione critica sulla natura della disoccupazione e sul modo in cui il senso comune normalmente la fraintende. Il secondo, un'approfondita analisi dei risvolti sociali dei continui aumenti della produttività, e del modo in cui essi hanno dapprima mediato un portentoso sviluppo attraverso l'imporsi dei rapporti capitalistici. Il terzo, una ricostruzione storico-teorica di come lo Stato sociale, dopo la Grande crisi, sia subentrato al capitale nel mediare l'ulteriore sviluppo sociale e l'arricchimento della società. Il quarto, una spiegazione del perchè l'ulteriore sviluppo delle forze produttive sia sfociato di nuovo nella disoccupazione di massa, e richieda un'appropriazione individuale dei frutti derivanti dagli aumenti di produttività. L'analisi delle diverse proposte che attualmente si contrappongono alle strategie conservatrici - il reddito garantito o di cittadinanza, i lavori socialmente utili o concreti, la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario - porta l'autore a concludere che l'ultima proposta racchiude in sé coerentemente e unitariamente anche quelle articolazioni del cambiamento richiesto che, in forma unilaterale, sono contenute nelle altre due.
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Dettagli

1997
9 gennaio 1997
Libro tecnico professionale
325 p., Brossura
9788833910130

Voce della critica


recensione di Screpanti, E., L'Indice 1997, n. 4

Ci sono una bella notizia e una brutta notizia in questo libro. La prima è che la disoccupazione di massa non è un fenomeno strutturale causato dal postfordismo, la globalizzazione, il toyotismo, la microelettronica e altre rivoluzioni epocali del capitalismo contemporaneo. Era ora! Non se ne poteva più di questa ideologia dell'ineluttabilità della disoccupazione - un'ideologia che è ormai diventata un luogo comune tanto diffuso da unificare un arco di pensiero "critico" che va da An al Pds passando per Ciampi e Prodi, e che sembra stia penetrando perfino in Rifondazione. Mazzetti è chiaro su questo problema. L'intensità del progresso tecnico non è sufficiente a determinare un rilevante livello di disoccupazione, se non è accompagnata dal ristagno della domanda aggregata.
Una buona metà delle pagine di questo libro è dedicata a sbaragliare il campo dalle filosofie della sconfitta. Tali sono quelle che, riconoscendo come ineluttabili gli effetti del progresso tecnico sull'occupazione, propongono di mettere almeno una pezza sulle sue conseguenze sociali più deleterie. Contro i teorici del reddito di cittadinanza viene fatto valere il principio di prestazione, cioè la tesi secondo cui, in un sistema capitalistico, l'attribuzione di un reddito non può non essere collegata alla creazione di un prodotto. Se tutti avessero diritto a percepire un reddito senza produrlo, da dove uscirebbero i beni che con quel reddito dovrebbero essere comprati? Argomentazione senza dubbio incontestabile al livello filosofico, ma poco efficace sul piano politico. È un peccato che Mazzetti non si abbassi a considerare anche qualche argomento terra terra che forse sarebbe più decisivo di quelli filosofici. Perché non dire chiaro e tondo, ad esempio, che, in un modo di produzione capitalistico, un basso reddito di cittadinanza si risolverebbe, per i disoccupati, in una riduzione dei sussidi di disoccupazione o dell'integrazione guadagni, mentre per gli occupati si trasformerebbe in un regalo alle imprese (che potrebbero detrarlo dal salario); insomma che il reddito di cittadinanza consisterebbe in un ennesimo tentativo di socializzare i costi della disoccupazione, privatizzandone i guadagni?
I teorici dei lavori socialmente utili invece sono sistemati con la teoria della sovrapproduzione generale: se i disoccupati ricevono un reddito per svolgere lavori concreti, contribuiranno senz'altro a sostenere la domanda aggregata; ma con i beni da loro prodotti contribuiranno anche ad alimentare l'offerta. Perciò, se la disoccupazione è causata da un eccesso d'offerta, i lavori socialmente utili non potrebbero contribuire a risolvere il problema. Forse è così. Ma la sentenza di Mazzetti sembra troppo categorica. Bisogna riconoscere che i lavori socialmente utili potrebbero contribuire almeno ad alleviare il problema della disoccupazione, visto che la produzione o l'occupazione aumenterebbero nella misura in cui quei lavori fossero pagati, se tale aumento di spesa pubblica fosse finanziato in pareggio.
E veniamo alla brutta notizia. Che è questa: che la disoccupazione di massa resta pur sempre un fenomeno strutturale, causato però non dal progresso tecnico in sé, bensì nientemeno che dall'abbondanza, cioè dal fatto che in una società resa ricca dalla crescita della produttività la domanda di consumo tende a ristagnare. L'argomentazione di Mazzetti ricalca fedelmente quella elaborata da Malthus un secolo e mezzo fa. Il capitale usa il lavoro per produrre profitti e la ristrutturazione produttiva per minimizzare i costi, soprattutto quelli del lavoro. In tal modo minimizzerebbe però anche la domanda di consumo, visto che la propensione al consumo dei lavoratori è molto più alta di quella dei capitalisti. Nella società opulenta si verificherebbe quindi una tendenza dei risparmi a sopravanzare le opportunità d'investimento, cosicché il plusvalore estratto nel processo produttivo incontrerebbe sul mercato i limiti alla propria realizzazione. Tutte le merci si svaluterebbero, gli investimenti verrebbero scoraggiati e l'abbondanza potenziale di merci resa possibile dall'aumento della produttività si risolverebbe in un'eccedenza di lavoro.
E non solo la spiegazione della disoccupazione è rigorosamente malthusiana; lo sono anche le politiche keynesiane, nell'interpretazione di Mazzetti. Malthus sosteneva che per uscire dal vicolo cieco della depressione da sottoconsumo fosse necessario far affluire una parte consistente del reddito nazionale a una classe sociale, l'aristocrazia, che fosse in grado di spendere reddito senza produrlo. In tal modo il gap deflazionistico esistente tra il reddito dei capitalisti e la loro domanda sarebbe stato riempito, i profitti prodotti avrebbero potuto essere realizzati e i lavoratori eccedenti avrebbero trovato impiego presso le classi oziose. Mazzetti riprende queste tesi pari pari, limitandosi solo a sostituire lo "stato sociale" all'aristocrazia.
Notevoli, peraltro, sono gli sforzi volti a rintracciare in Marx e Keynes dei padri un po' più nobili di Malthus - sforzi giocati a suon di citazioni, ma che falliscono entrambi. È noto infatti, almeno dai tempi di Tugan-Baranowsky, che la tesi della stagnazione da sottoconsumo è fondamentalmente estranea al pensiero di Marx. Invece Mazzetti, "che sente suonare le campane ma non sa mai dove, deduce la sovrapproduzione dal fatto 'che l'operaio non può ricomprare il suo prodotto'" (Karl Marx, "Su Malthus"). Eppure dovrebbe sapere che "se la creazione del plusvalore del capitale si fonda sulla creazione del lavoro eccedente, allora l'aumento del capitale in quanto capitale (...) dipende dalla trasformazione di una parte di questo prodotto eccedente in nuovo capitale", insomma che non solo i consumi costituiscono domanda effettiva, ma anche gli investimenti. E Mazzetti non ci spiega perché gli investimenti non riescano a essere all'altezza della situazione, salvo osservare che "in ultima istanza" (che vorrà dire?) la domanda finale deve dipendere dal consumo.
A conferma della sostanziale estraneità del pensiero mazzettiano rispetto a quello di Marx, va rilevato il fatto sconcertante che in un libro dedicato alla disoccupazione in un'economia capitalistica non viene mai menzionata la lotta di classe. È possibile che le politiche restrittive dei governi conservatori di questi ultimi quindici anni non abbiano alcuna responsabilità? Ed è possibile che tali politiche non possano essere interpretate in termini di lotta di classe, cioè come azioni volte a usare gli aumenti della disoccupazione per riequilibrare i rapporti di forza tra le classi?
Né più convincente sembra la rivendicazione di un'ascendenza keynesiana, che è per lo più sostenuta da citazioni tratte da brani in cui Keynes si divertiva a civettare con Malthus e Silvio Gesell o a profetizzare catastrofi stagnazioniste per i suoi nipoti. Keynes viene letto come un vendicatore di Malthus, nonostante la differenza radicale che corre tra la sua critica alla legge di Say e quella malthusiana. Sembra che tutto si riduca a un problema di eccesso dei risparmi sugli investimenti causato da un'elevata propensione al risparmio. Se non che Keynes considera la disoccupazione permanente come un fenomeno di equilibrio, e non di disequilibrio. La teoria della domanda effettiva è basata sull'ipotesi che i risparmi siano sempre uguali agli investimenti, e il suo carattere rivoluzionario consiste, non nel postulare una divergenza tra produzione aggregata e domanda effettiva, bensì nell'individuare un nesso causale opposto a quello assunto dalla teoria tradizionale: sono gli investimenti che determinano i risparmi e non viceversa.
Se la disoccupazione deriva da un eccesso di risparmi, come sostiene Mazzetti, allora la spesa pubblica contribuisce a risolvere il problema in quanto integra la spesa privata. Lo stato spende senza produrre, ovvero offre servizi senza vendere merci (o senza venderle al loro vero valore). In tal modo la domanda aggregata dovrebbe aumentare, "dato il livello dei risparmi". Le cose però non stanno proprio così. La spesa pubblica non si limita a integrare quella privata, ma la alimenta, sia attraverso il meccanismo del moltiplicatore, sia attraverso il sostegno che dà all'aumento dei profitti e all'esaltazione degli "animal spirits" dei capitalisti. Quando cresce la spesa pubblica crescono gli investimenti, tanto pubblici quanto privati, e "il livello dei risparmi si adegua".
Mazzetti crede inoltre che, poiché la spesa dello stato deve ripianare una carenza di spesa privata, il bilancio pubblico debba essere mantenuto in deficit. Ma il teorema di Haavelmo, un caposaldo della teoria della politica economica keynesiana, dimostra che un aumento della spesa pubblica può contribuire all'espansione della domanda aggregata anche se è finanziato in pareggio. Ciò che conta non è tanto il deficit, quanto l'aumento della spesa. Lo stato keynesiano, per Mazzetti, è un benefattore dell'umanità, poiché mira a riparare i guasti prodotti dalla sete di profitto. A volte viene presentato come un castigamatti dei capitalisti e, se non come l'artefice di una rivoluzione socialista, almeno come il protettore di una sfera di consumo e di produzione che è sottratta alla dura legge "del dare e dell'avere". Purtroppo le cose stanno diversamente. Keynes è stato mandato dal cielo, non per affossare il capitalismo, ma per salvarlo. Il sostegno alla domanda effettiva offerto dallo stato keynesiano funziona innanzitutto in quanto si risolve in un sostegno alla crescita dei profitti, e poi anche in quanto serve a moderare il conflitto di classe generato dall'inefficienza del capitalismo.
Nei capitoli finali del libro viene avanzata la proposta politica risolutiva: riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Magnifico! C'è qualcuno che potrebbe non essere d'accordo? Neanche Fossa, credo, potrebbe dissentire da una proposta così generica. Cosa vuol dire infatti "a parità di salario"? Che i salari restano bloccati per tutto il tempo in cui si riduce l'orario di lavoro? O crede Mazzetti che tale riduzione possa avvenire in modo istantaneo? E si tratta dei salari monetari o di quelli reali? Di quelli lordi o di quelli netti?
Il libro non ci dà lumi su tutti questi problemi terreni. Si dilunga invece sulla filosofia della necessità della riduzione d'orario, necessità che viene dedotta di nuovo dalla teoria del sottoconsumo: mantenere intatto il potere d'acquisto in mano agli operai a fronte di una riduzione d'orario comporterebbe un aumento della domanda aggregata e ciò consentirebbe all'economia di uscire dalle secche della stagnazione. Sembra che venga proposto un meccanismo di redistribuzione del reddito a favore dei salari. Ma, se è così, ci piacerebbe capire come pensa Mazzetti di far fronte, da una parte, al vizio che hanno le imprese di fissare i prezzi ricaricando sui costi diretti e, dall'altra, alla tendenza all'aumento del costo del lavoro che sarebbe indotta dal tentativo di attuare quel provvedimento. E cosa suggerirebbe per bilanciare le riduzioni di produzione e occupazione che sarebbero causate dalla conseguente riduzione di competitività internazionale? Pensa forse Mazzetti di poter difendere la redistribuzione del reddito elevando barriere protezionistiche? O rifiuta il socialismo in un paese solo? O crede piuttosto di aggirare il problema con un intervento sul cuneo fiscale? Di nuovo: su tutti questi problemi terra terra il libro non dà lumi.

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