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In una fase storica in cui integralismi d'ogni natura risorgono, Voltaire, emblema del dialogo, della ragione e della tolleranza, recupera più che mai il suo valore d'antidoto. E lo recupera, ironia della sorte, attraverso quella parte della sua opera (ben rappresentata in questa "Pléiade" Einaudi) che stimava "bagatelle fuggevoli", indegne comunque di figurare accanto alle sue tragedie, ai poemi, ai saggi storici.
La posterità gli ha dato torto, già da due secoli: il suo teatro non è più rappresentato, i versi altisonanti della Henriad e non li legge più nessuno; a parte il Secolo di Luigi XIV, le opere storiche vivacchiano; le "bagatelle" resistono invece magnificamente.
L'idea di questo bel volume curato da Gianni Iotti è stata quella di ordinare per cronologia questa messe di opere brevi su tante delle quali le classificazioni di innumerevoli edizioni di opere complete o parziali di Voltaire si erano spesso contraddette vicendevolmente. L'intitolazione della "Pléiade" (Racconti, facezie, libelli) cattura bene la varietà di scritti in esso contenuti; e l'inedita riunione di racconti e libellistica comprova il continuo, fertile interscambio per cui la filosofia entra nei contes e la letterarietà abita i mélanges.
Il criterio cronologico, inoltre, consente di seguire, per una volta, ordinatamente l'evoluzione di Voltaire. È difficile, ad esempio, stabilire quando esattamente nasce la voga orientalista a cui attinge un numero elevatissimo di questi lavori, ma si scopre con sorpresa che Voltaire vi ricorre già intorno al 1714-16 (per Il facchino guercio), ben prima che l'influsso di un capolavoro, le Lettere Persian e di Montesquieu, aprisse la strada a centinaia di epigoni del tendenzioso riferimento alla civiltà lontana.
Si nota anche che la struttura del racconto voltairiano non tende a restare nel tempo sempre la stessa: in una prima, ampia fase (sino agli anni sessanta circa), la narrazione parte in genere da uno spunto d'attualità o di polemica ideologica (valga per tutti la parodia dell'ottimismo leibniziano nel Candido), ma non se ne lascia sconvolgere; viceversa, nei due decenni successivi, tende sempre più al pamphlet, a farsi spesso dialogica come nella più esplicita produzione utopica, ad aprire parentesi filosofiche. Si nota anche un tornante espressivo che dalla perfetta ironia disillusa di Micromega o di Zadig discende pian piano al patetico e all'edificante: lo si percepisce in ampie sezioni di L'Ingenuo e permea quasi completamente la Storia di Jenni i cui espedienti per la commozione sono ormai un imprestito al romanzo larmoyant di quegli anni rousseauiani.
Come funzioni e si strutturi la famosa ironia di Voltaire lo spiega (nella prefazione Voltaire: prima, durante, dopo) Francesco Orlando, il quale, riprendendo le fila di un discorso che risale al suo fondamentale Illuminismo, barocco e retorica freudiana, ricorre alle figure di "denegazione" e "spostamento" per un'osservazione di grande intelligenza critica sui materiali.
Certamente fu il cristianesimo il bersaglio con le maggiori occorrenze ironiche, ma sempre affrontato con riferimenti e citazioni di scrupolosa filologia. I toni di Voltaire cambiano con i contesti. Se nella poco nota Relazione sulla messa al bando dei Gesuiti dalla Cina sono irresistibilmente scanzonati, in Il pranzo del conte di Boulainvilliers divengono infuocati, probabilmente sotto l'influsso di quelle apostatiche Memorie dell'abate Meslier (penso alle blasfemie sul cibo eucaristico) che Voltaire aveva fatto pubblicare postume sotto il titolo di Testamento: certamente immagini come quelle dei primi cristiani visti come plebi brutali, rivoltose e assetate di potere si ritrovano più tardi nei romanzi maggiori di Sade (e persino in alcune pagine nietzschiane). Invece, nel tardissimo esempio della già citata Storia di Jenni (1775), ultimo dei racconti, i toni dell'ottuagenario Voltaire si adombrano di accorate preoccupazioni a sfondo sociale legate ai rischi di diffusione delle tesi ateistiche di d'Holbach; il deismo voltairiano, più che da strumento destruens, si presta in questo frangente a fare da rassicurante termine medio: "L'ateismo e il fanatismo sono i due poli d'un universo di confusione e di orrore - conclude Freind, il saggio padre di Jenni. - La piccola zona della virtù si trova tra quei due poli".
Timoroso (e sarcastico) verso il futuro, Voltaire è, secondo un'acuta argomentazione del robusto saggio introduttivo di Iotti (La finzione e la ragione), l'uomo di un presente che però, per quanto critico verso il passato, nel passato ha le sue contorte radici: emulazione e apologia difficilmente in lui prescindono dalla memoria della grande monarchia e della grande letteratura del Seicento, quasi in un'anacronistica pretesa di possibile continuità. Il suo teatro, per esempio il Maometto, attualizza le tematiche ma non conosce assetto formale che si emancipi dagli alessandrini di Racine (così come la collaborazione con Rameau non lo allontana dall'idea che il linguaggio di Lully non è comunque superabile).
Tutti i sarcasmi e le parodie spesi contro il vecchio mondo sembrerebbero cioè ribadire le resistenze e l'insostituibilità che parte di quest'ultimo conserverebbe in certe profondità dellÆesprit di Voltaire. Non sarà per questa curiosa ambivalenza che nel passatista Chateaubriand, dietro le proclamate distanze ideologiche, si legge nei suoi confronti un'insospettabile ma sicura ammirazione? E che, con contrappasso immediato, l'infallibile fiuto di Stendhal lo espunge invece sistematicamente dalle sue più oltranziste simpatie illuministiche?
Forse anche a certa ricchezza di contraddizioni della personalità si deve la resistenza dell'icona letteraria e ideologica (soltanto Hugo ne conquisterà una eguagliabile) dagli anni della Rivoluzione francese a tutto l'Ottocento e oltre ancora, nel bene e nel male.
Su questo, altre pagine di Orlando scorrono lucidamente, dai "successori" elettivi (Courier, Heine) alla denigrazione romantica (Musset), dagli effetti della volgarizzazione superficiale (il farmacista di Madame Bovary) agli eredi presurrealisti della sua ironia (Villiers, Lautréamont, Jarry). Politicamente, il deista confutatore dell'interpretazione à la lettre della Bibbia (l'antica lettura ne fu sconvolta per sempre) agli occhi della conservazione fu certo più scomodamente empio, ma proprio per ciò più attuale, dei materialisti più radicali. Non a caso, tale attualità suggerisce a Orlando alcuni collegamenti col mondo d'oggi, peraltro "sempre meno illuministico".
Se le riflessioni di Orlando e Iotti costituiscono - per ri-parafrasare il povero Leibnitz - la migliore delle introduzioni possibili alla comprensione o alla riscoperta di Voltaire, un contributo decisivo all'eccellenza della "Pléiade" è dato anche dalle traduzioni (buonissime, dovute a Susanna Alessandrelli, Gianni Iotti, Giovanni Paoletti, Maria Grazia Porcelli, Susanna Spero), dal ricco apparato di note e, non ultimo, da una cronologia (esemplata su quella di René Pomeau), dove non manca nessuna delle numerose irrequietezze, peregrinazioni, provocazioni di una vita lunghissima. Tutto ha peso nel grande affresco: la corte prussiana, la sanguinosa querelle con Rousseau, la difesa appassionata dei perseguitati (il pastore Rochette, La Barre, Calas), i vari esili (Inghilterra in primis) e la Bastiglia, i trionfi a teatro, gli incontri epocali (Swift, Pope, Federico II, Rameau, Lekain, La Mettrie, Algarotti, Boswell: la sfilza è interminabile), scandali (e roghi) scatenati dalla Pulzella d'Orléans o dal Dizionario Filosofico, la "scelta" di una residenza, Ferney, a due passi dal confine.
Se si pensa che da tutti questi luoghi e circostanze piovvero a profusione lettere lucide, eleganti, ironiche (e autoironiche), sempre illuminanti, non ha poi torto chi ha indicato anche in questo Voltaire fugace e quotidiano (legato al presente più che mai) l'artefice d'un capolavoro.
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