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Libro altissimo. Un canto tra amore e storia. Il poeta non parla di sé ma di un mondo. Un mondo in cui ciò che accade riguarda ognuno.
L'impressione che rimane dopo aver letto questo libro, è quella di una sofferenza sospesa, diluita nella coscienza e nella memoria: un dolore distillato, evaporato, come suggerisce Maria Grazia Calandrone nella quarta di copertina. Non per questo meno coinvolgente, e perturbante. L'estraneità al mondo è in qualche modo conclamata dal titolo della prima sezione del volume, "esistono storie in cui sono straniera", e ribadita ideologicamente quasi come scelta esistenziale: una vita ai margini, volutamente incapace di opporsi, di soverchiare: "nessuna promessa di vivere ma / un melo piccolo una / terra ai bordi della terra // nei verbi la distanza // a sera solo l'aria ricordava". Solo l'aria, il cielo, la neve, la terra, gli alberi sembrano manifestare la loro solidarietà a chi scrive, con una netta predilezione per le stagioni fredde, per la campagna e l'acqua che vi scorre. Anche se le epigrafi sono tutte tratte da Melville (con l'esplicita formula di rifiuto bartlebiana), il mare c'entra poco in questa scrittura. La povertà materiale, vissuta e patita nell'infanzia, viene raccontata con il sottile orgoglio di chi la riconosce come un segno distintivo di nobiltà d'animo, di affinamento spirituale, di empatia nella sofferenza. L'elenco di mancanze e privazioni diventa affermazione di uno stato di grazia, che marca una differenza tra vittima e carnefice, là dove chi vince davvero è proprio la vittima. E vince appunto attraverso il "racconto", l'uso delle parole che diventano giaculatorie salvifiche, litanie con cui ri-costruire la realtà. Infatti, "siamo le parole che sappiamo", si intitola un'altra sezione del libro, siamo «quell'altrove delle parole o le immagini», «perché nulla resiste se non lo pronunci»: solo nel racconto ci salviamo, individualmente e come collettività. Solo nel racconto possiamo recuperare un'assenza, un amore che non c'è più, il rapporto con la natura.
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