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Anno edizione: 2011
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Di per sé lo sfondo costruito da Alarcón sarebbe complessivamente realistico, corrispondendo a quello di un Paese sudamericano non individuato, amministrato da un potere corrotto e tirannico, percorso dalla guerra civile, traumatizzato dalla brutalità delle epurazioni e delle esecuzioni. Tuttavia lʼautore si sforza di oggettivare mimeticamente nel testo, anche attraverso la propria tecnica narrativa, unʼatmosfera di disorientamento, inquietudine e mistero che finisce col risultare quasi onirica, offuscando volutamente il realismo relativamente limpido dello sfondo: così, non solo tutti i singoli personaggi hanno un angolo di visuale estremamente ridotto, sentendosi dominati da un insopportabile senso di precarietà («formavano una strana progenie di uomini in disperata attesa di una pesante delusione»), ma anche lo stesso «regista» che li descrive e racconta sembra essere al corrente soltanto di frammenti della loro storia, benché conosca la Storia con la S maiuscola. In altri termini, nonostante si faccia ricorso a frequentissime anacronie che, talvolta persino allʼinterno delle microsequenze, spostano continuamente il lettore da un capo allʼaltro della linea del tempo, secondo un «modus operandi» che solitamente è tipico del narratore onnisciente — bisogna tra lʼaltro ammettere che questo incessante «montaggio alternato» imbastito dallʼautore risulta un poʼ troppo frenetico — si rimane pur sempre allʼinterno del raggio dʼazione e di conoscenze dei personaggi, esseri che dubitano anche di sé stessi e per i quali diviene sempre più labile la linea di confine tra la colpa e lʼinnocenza o tra lʼaccettabile e lʼinaccettabile. Ed anche la voce di Norma, che ogni domenica esce dalle antenne trasmittenti di «Radio città perduta» ed annuncia i nomi dei dispersi, è una sottile linea di confine: un miracoloso rigagnolo di insensata speranza che divide asimmetricamente il sempre più ridotto terreno del senso dellʼesistenza dallo sconfinato deserto dellʼinsignificanza.
Vietato ai minori. Vietato a persone troppo sensibili. "Radio città perduta" è un romanzo in cui i personaggi vivono sotto un cielo senza luce, in un paese senza speranza. Una dittatura prolungata porta alla superficie la parte peggiore di ognuno: non ci sono aguzzini né eroi, ma individui meschini, ambigui, avidi, vigliacchi. La mancanza di futuro rende questo romanzo angosciante. Si è impotenti di fronte al male. Una volta finito, si sente bisogno d'aria. Bisogno di andarsi a rileggere qualcos'altro, ad esempio "La strada" di McCarthy o il Diario di Etty Hillesum, libri drammatici ma intrisi d'amore. In "Radio città perduta" la scrittura è serrata, essenziale, coerente. Un continuo passaggio fra presente e passato, e fra passati diversi, in un gioco di alternanze che impedisce al lettore di andare avanti nella storia, alla ricerca di una speranza che non arriva mai. Gran bel romanzo, lo ammetto, ma la notte dell'umanità che rappresenta è troppo buia, troppo nera, troppo.
Recensioni
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