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Anno edizione: 2002
Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
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Si ha qui l'eccellente conferma di un talento in grado di tracciare destini incrociati. Dopo Tempi di malafede sulla tormentata amicizia tra Guido Piovene ed Eugenio Colorni (Einaudi, 1999; cfr. "L'Indice", 1999, n. 11), l'autore ripercorre infatti, in questo volume, l'esistenza parallela di Raffaele Mattioli e di Antonello Gerbi. Il primo, faber della rifondazione del sistema bancario italiano dopo la grande crisi; il secondo, responsabile dell'ufficio studi della Comit, della quale Mattioli fu amministratore delegato e presidente. Giovandosi dei carteggi famigliari (Antonello è il padre di Sandro) e di una vasta ricognizione archivistica, Sandro Gerbi ricostruisce il comporsi di un sodalizio umano e professionale, guidandoci altresì nell'esistenza di due esponenti delle classi dirigenti di ascendenza liberale. Alla Banca commerciale di Mattioli, d'altra parte, completarono l'apprendistato quanti ne incarnarono sotto il profilo politico le due diverse declinazioni (Giovanni Malagodi e Ugo La Malfa) e chi guidò, nella realtà di un'economia mista, l'organizzazione e gli assetti del capitalismo privato (Enrico Cuccia). La Banca commerciale, negli anni della dittatura fascista, fu in competizione con le università e con le istituzioni ufficiali del regime. Ma anche con gli organismi al riparo dei quali i cattolici poterono preservare la costruzione delle loro classi dirigenti. Mentre fu un rifugio che in taluni casi poté sottrarre gli uomini liberi a quei sofferti e aleatori centri di formazione dell'antifascismo democratico e comunista che si vennero formando nelle galere e nell'esilio.
Il fascismo, va ricordato, incontrò ostacoli insormontabili alla sua vocazione totalitaria. La società, che conteneva elementi di complessità, ma che nel contempo aveva sperimentato una lunga convivenza con l'autoritarismo, poneva argini alla sua piena egemonia. Fu la capacità di resistenza di alcuni minoritari ancorché decisivi settori a contenerne la volontà di potenza e non una sua supposta più mite natura, come mostra - e non è che un esempio - il ricorso lucido e sistematico all'eliminazione fisica dei potenziali avversari del dittatore. In questa luce, il ruolo di Mattioli alla Commerciale conferma l'impossibilità, da parte del fascismo, di avvolgere di sé ogni aspetto della società italiana del tempo. La scelta di Gerbi a capo dell'ufficio studi della Commerciale fu così anche un investimento su una prospettiva di più largo respiro, una scommessa sul futuro. Era pure indicativa della visione di Mattioli in merito alla ricca esperienza che doveva contraddistinguere il percorso formativo di chi era chiamato a un ruolo dirigente. Avendone intuito il valore (e si è classe dirigente quando si sa operare tale riconoscimento), l'amministratore delegato della Comit agevolò l'approfondimento degli studi, nutriti di esperienze internazionali, del futuro responsabile dell'ufficio studi della banca.
Proveniente da una famiglia ebraica (erano suoi zii Claudio Treves e Alessandro Levi), Gerbi nel 1932 rifiutò l'appartenenza forzata, regolata dalla legge dell'ottobre 1930, alle comunità israelitiche italiane. Il rigetto dell'iscrizione obbligatoria a identità inflessibilmente imposte derivava da una laicità profondamente vissuta e insieme dalla consapevolezza del molteplice che contraddistingue l'uomo contemporaneo. Ciò non lo salvò nel 1938 dalle leggi razziali e dal conseguente decennale esilio in Perù, ove peraltro avviò quegli studi sul Nuovo Mondo che gli hanno assicurato una posizione di tutto rilievo nella storia intellettuale italiana. La via di fuga dagli orrori che si abbattevano sull'Italia e sull'Europa fu aperta e delineata, per Gerbi, come per altri, dall'"ebreo onorario", vale a dire da Raffaele Mattioli. Nell'Italia repubblicana riprese l'intensa collaborazione tra Mattioli e Gerbi. E dalla Commerciale si riverberò sull'ambizioso progetto culturale che Mattioli aveva avviato acquisendo nel 1938, anno in cui a Gerbi perseguitato succedette La Malfa, la casa editrice di Riccardo Ricciardi. Le ascendenze di questa classe dirigente erano esemplificate, nel 1951, dall'apertura della collezione dei classici della letteratura italiana con una silloge di scritti di Croce, e dalla pubblicazione di una raccolta di scritti di Giovanni Amendola, La nuova democrazia. Cultura e politica, dunque. Che per Amendola avevano avuto a che fare con un profondo travaglio precipitato armoniosamente in una concezione dell'attività pubblica ancor oggi minoritaria e incompresa. Lavorare per una "nuova democrazia" significava così anche operare per l'allargamento delle basi dello stato e delle classi dirigenti. Di questo si nutre il rapporto costante di Mattioli con Togliatti e con il Pci. E la metafora del muro da superare, costruito con i mattoni dei classici della "Ricciardiana", induce a riflettere su quell'impegno volto all'interesse generale che è stato proprio della migliore classe dirigente italiana, un impegno poi rivelatosi, negli anni della morte di Mattioli e di Gerbi, non condiviso e sconfitto.
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