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«Allorquando uno volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò». Questo è il tragico “ideale dell’ostrica”, questi sono i vinti, per Giovanni Verga. Non solo per lui, in realtà. Il mondo è “vorace”, ovunque. Poco importa se ti trovi a Trezza, patria dei Malavoglia, e ti chiami Bastianazzo. O se il luogo è Pechino e il nome è Xiangzi come quello del protagonista de Il ragazzo del risciò (307 pagine, 14 euro), il romanzo – verghianissimo … – di Lao She ora in versione italiana per Mondadori a oltre 65 anni dalla prima edizione in lingua cinese.
Xiangzi vuol dire “fortunato”. Uno scherzo del destino: risalire la corrente risulterà impresa impossibile per questo giovane campagnolo che nei primi anni Trenta non resiste all’attrazione fatale esercitata dalla grande città. Grande e silenzioso, forte e ingenuo a tal punto da guadagnarsi il soprannome di Cammello, si trasferisce a Pechino dove lavora come tiratore di risciò. Lontano dal suo “guscio d’ostrica”, però, riesce solo a sfiorare la buona sorte per cadere subito in una condizione peggiore della precedente. Nelle pagine finali del libro, la considerazione più amara perché contiene la rinuncia alla speranza: «L’esperienza gli aveva insegnato che domani è semplicemente la continuazione di oggi e che dell’oggi eredita proprio tutti i guai».
Nato nel 1899, Lao She è stato una delle tante, troppe vittime della Rivoluzione Culturale: morì suicida nel 1966 dopo essere stato ingiustamente accusato di “antinazionalismo” e pubblicamente umiliato dal regime maoista. La sua colpa, forse, quella di saper parlare un eccellente inglese avendo lavorato all’Università di Londra nella Scuola di Studi orientali come lettore di cinese dal 1924 al 1929 e successivamente accettato un invito del Dipartimento di Stato americano. Rientrato in Cina nel 1949 dopo la nascita della Repubblica popolare, autore di romanzi e testi teatrali, ricoprì vari incarichi politici e culturali ma la “Rivoluzione” travolse pure lui. Che preferì morire gettandosi in un lago nei pressi di Pechino.
Alessandra C. Lavagnino, la docente dell’Università di Milano che ha tradotto Il ragazzo del risciò, sottolinea nella sua prefazione come la memoria di Lao She sia stata oscurata in patria per lungo tempo: «Il grottesco protocollo della rimozione ufficiale dei nemici del popolo», scrive. «Soltanto nel 1978 – aggiunge – con la fine dell’estremismo e l’inizio delle riforme il processo di riabilitazione verrà completato… Il tempo sembra ricoprire questi tragici eventi con la soffice patina della nostalgia di un passato che in realtà è ben lontano dall’essere sepolto e dimenticato». Il maestro riemerge dal lago. O almeno la sua opera. Per Alessandra Lavagnino, «nella storia della letteratura cinese del ventesimo secolo Lao She è un importante esponente degli scrittori che accolgono in pieno le sollecitazioni volte alla modernizzazione della scrittura”. E ancora: «La sua è una padronanza che sembra naturale di quella lingua chiara di tutti, il parlato che diventa una nuova frontiera della modernità». Esattamente come per il Verismo, come per Verga.
Recensione di Gerardo Marrone
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