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Il punto di partenza della riflessione di Faeta è la centralità dello sguardo nell' antropologia culturale, una disciplina che ha ereditato dalla cultura occidentale l'idea secondo cui solo l'osservazione diretta dei fenomeni può legittimarla come scienza. La nascita della fotografia, in quanto tecnica collegata allo sguardo, in particolare, ha rafforzato la centralità dell'attività visiva nella pratica antropologica, diventando lo strumento privilegiato della ricerca etnografica. Secondo Faeta, è necessario ripensare questo paradigma visuale, epurandolo dalle declinazioni positivistiche che ne compromettono da sempre l'attendibilità ermeneutica. L'antropologia deve riuscire a costruire un pensiero della relazione con l'altrui diversità, che sappia svincolarsi dall'idea riduzionista di visione come «restituzione analogica della realtà» contaminata dal punto di vista dell'osservatore, assumendo, al contrario, una prospettiva ermeneutica dialogica, capace di abitare il mondo. Un obiettivo tutt'altro che facile da realizzare, dal momento che lo sguardo, anche quando non ha una finalità rappresentativa, modifica la realtà osservata, per questo è più plausibile, invece, spostare il focus etnografico: dai fenomeni alle pratiche di interazione tra osservatori e osservati. D'altronde - come ci insegna Clifford Geertz- le culture , così come la vita sociale, non sono dei sistemi chiusi che possono essere studiati in un laboratorio, perché nell'ambito di questo settore di ricerca, non esiste lo stesso distacco tra osservatore e osservato che ritroviamo in altri campi di studio, quanto piuttosto una circolarità ermeneutica tra soggetti che producono dei significati. Gli uomini, infatti, sono degli animali simbolici auto-interpretanti, per cui non solo non è possibile pensare di poter fondare la conoscenza antropologica sull'osservazione, ma il suo campo d'indagine deve essere il contesto significante unico, creato dall'interazione dialogica tra antropolo
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Francesco Faeta, decano dell'antropologia visiva italiana, raccoglie in questo volume una serie di testi già parzialmente presentati in occasioni diverse ma solo apparentemente eterogenei. Un fitto intreccio di fili accompagna infatti il lettore attraverso alcuni percorsi tematici che si arricchiscono dal confronto reciproco. Punto di partenza della riflessione è la centralità dello sguardo in antropologia, tema fondamentale nell'opera dell'autore: uno sguardo che percepisce, osserva e produce rappresentazioni visive le quali informano ampiamente la vita sociale e culturale. Abbandonata definitivamente la concezione positivista che conferiva alle immagini uno statuto di realtà, la ricerca sullo sguardo (che Faeta porta avanti da molti anni) si inquadra in una prospettiva definita dall'autore fenomenologica in senso lato, con riferimento da una parte all'opera di Merleau-Ponty, dove l'accento è sulla natura relazionale della visione, e dall'altra a quella di Bourdieu, il quale situa la sociologia e l'antropologia all'interno di un campo relazionale in cui è necessario considerare la posizione dell'osservatore. Inoltre, più in generale, la "netta idea del carattere di rappresentazione" degli oggetti della ricerca è profondamente debitrice della teoria di Geertz declinata più specificamente in un'ermeneutica dell'immagine: la visione e le sue rappresentazioni possono infatti essere comprese solo in quanto interpretazioni culturali, particolari e soggettive, di una data realtà. In questo senso, le immagini che gli antropologi si fanno degli altri riflettono in gran parte, come in un gioco di specchi, la posizione dello stesso osservatore e la sua prospettiva teorica ed epistemologica.
Il tema della riflessività conduce Faeta al secondo filo che attraversa questo libro: quello che riguarda l'antropologia italiana, i limiti della sua storia, le sue potenzialità attuali. Partendo dalle esperienze dei precursori missionari, amministratori coloniali, esploratori, ecc. spesso coraggiose ma isolate e comunque mai sostenute da una politica nazionale, Faeta denuncia il mancato sviluppo di una prassi di ricerca sul campo, come quella che invece si consolidò altrove. Precocemente, inoltre, si afferma in Italia un "paradigma domestico" che concentra l'attenzione degli studiosi verso il Meridione, attraverso quello che viene definito un "orientalismo interno" fondato su una nozione primitivista di Sud. Pur riconoscendo i meriti indiscussi di Ernesto De Martino, Faeta prende le distanze da una tradizione a lungo ripiegata su se stessa e caratterizzata da tendenze autarchiche (cfr. Francesco Remotti, Tendenze autarchiche nell'antropologia culturale italiana, "Rassegna Italiana di Sociologia", 1978, n. 2, pp. 193-226). Un limite che Faeta rinviene anche nelle immagini che corredano le ricerche di De Martino, realizzate da fotografi e cineasti poiché lui, affetto da quella viene definita una "radicata iconofobia", si dedicava esclusivamente alla scrittura colta. Anche in questo caso è evidente la predilezione per una visione di stampo neorealista segnata da una visione arcaica del Meridione italiano.
Prendere oggi le distanze da questa antropologia significa per Faeta tentare un esperimento nuovo, orientato a utilizzare l'antropologia come critica culturale (cfr. George E. Marcus e Michael M. J. Fisher, Anthropology as Cultural Critique. An experimental moment in the human sciences, University Of Chicago Press, 1986) applicata all'Italia contemporanea, arricchendo così il dibattito sulla storia nazionale e sulle sue evoluzioni recenti con un punto di vista quello antropologico che purtroppo risulta per lo più assente dalla scena mediatica. Più in specifico, nella terza parte del volume, l'autore ci propone alcune riflessioni etnografiche condotte su esempi di mnemotecniche visive osservate a Nocera Inferiore. Tuttavia, nonostante la specificità di questi casi, non si tratta qui di riproporre un'analisi confinata al ristretto ambito "etnico" (dimensione che negli ultimi quarant'anni l'antropologia ha radicalmente decostruito), quanto di considerare questi contesti locali all'interno di un campo più vasto di relazioni sociali in grado di schiudere spunti teorici di carattere generale.
Peccato soltanto per l'assenza di un apparato iconografico, che in un volume come questo avrebbe certamente arricchito la riflessione grazie allo specifico potere comunicativo delle immagini, che non è possibile in alcun modo ridurre a una loro descrizione verbale. Cecilia Pennacini
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